Il romanzo è ambientato nel Bangladesh durante la breve ma cruenta guerra di liberazione dal Pakistan, dal marzo al dicembre 1971.
Lʼautrice ripercorre gli avvenimenti dal punto di vista di Rehana: una donna che vorrebbe essere semplicemente moglie e madre: "aveva sposato un uomo che non si attendeva di amare; viveva una vita di compostezza, una vita con poche sorprese.
Aveva chiesto a suo padre di trovarle un marito con poche ambizioni.
Qualcuno le cui ricchezze non si sarebbero dissolte allʼimprovviso".
Ed invece la donna si ritrova vedova, senza un reddito.
Fragile e indifesa, non ha la forza per impedire di farsi portar via dal cognato i due figli, Sohail e Maya.
Il desiderio disperato di riaverli la porta a compiere unʼazione inconcepibile per lei, donna religiosa e ligia alle regole della tradizione: ruba dei gioielli ad un cieco e riesce a riprendersi i figli dimostrando di avere redditi sufficienti per allevarli.
Aver accettato di farsi sottrarre i bambini, anche se per poco tempo, è una ferita profonda; crea in Rehana un senso di colpa che condiziona i rapporti con i figli.
È vedova, ha lasciato i ragazzi senza un padre, non ha voluto dargli un nuovo genitore.
Quando il popolo in rivolta dichiara lʼindipendenza del Bangladesh, Rehana "si sentì sicura che tutto si sarebbe risolto da sé:(...) il paese sarebbe divenuto la sua casa, e i ragazzi avrebbero continuato ad essere i suoi bambini.
Improvvisamente il mondo sarebbe giusto di per sé, ed essi avrebbero continuato a vivere vite ordinarie, non eccezionali".
Ma, "una guerra era venuta a trovarli.
Qualunque cosa stesse per accadere era già accaduto; ora avrebbero dovuto vivere nella sua ombra." Vorremmo vivere in pace, condurre unʼesistenza fatta di piccole cose (cucinare, assettare la casa, curare il giardino, allevare i figli, godere del loro amore), ma arriva la guerra e niente è più come prima.
Il romanzo non affronta il grande tema della guerra e della pace; narra invece il percorso interiore, che conduce unʼesile donna trentacinquenne a partecipare con un ruolo attivo alla lotta del suo popolo per la libertà, contro una repressione crudele e spietata.
Dapprima Rehana lo fa per il figlio, coinvolto nella Resistenza, poi agisce perché intende combattere per lʼindipendenza del Bangladesh.
Rehana permette ai partigiani di nascondere nel suo giardino munizioni e dinamite, ospita un ufficiale dellʼesercito di liberazione rimasto gravemente ferito in un attentato, infine, coraggiosamente libera un carcerato, presentandosi da sola alla prigione, dove corrompe le guardie.
Perché mette in pericolo la sua vita ? "Io voglio fare la mia parte.
Forse non è per mio figlio, forse è qualcosʼ altro.
Tu non pensi che posso amare qualcosʼaltro che i miei figli ? Io posso, posso amare altre cose." In questo percorso ci sono due momenti fondamentali, nei quali si attua una sorta di spoliazione della sua essenza più intima.
Su richiesta della figlia decide di usare le sue stoffe più preziose per fare delle coperte per i partigiani: "il sari era di fronte a Rehana come immagini in un album di foto, evocative, un poco accusatorie" Ma perché non farlo, se Maya si vestiva di bianco (colore della vedovanza) ad indicare il suo disprezzo per il lusso, ed anche, forse, per il lutto intramontabile per il padre ? " Siamo in guerra, (...) Per provare che sono di qui.
Per questo sto facendo qualche cosa".
Rompe anche i legami ancestrali.
Alla fine della guerra va in carcere a far visita al cognato, che aveva combattuto e torturato i partigiani e che le chiede, forte dei legami familiari, di farlo liberare.
"Ella sta per pronunciare le parole, ovvie e scontate, - per rispetto a mio marito- , ma poi la vista di tutti loro, Joy e Aref e Mrs Sengupta apparvero davanti a lei.
Ma persino così avrebbe potuto perdonarlo, ma poi si ricordò della sguardo di Maya quando seppe di Sharmeen (la migliore amica della figlia, stuprata e massacrata), e quei primi giorni di guerra quando capì che non ne sarebbe venuta fuori con tutto il suo mondo intatto" E disse: "non ti posso perdonare, fratello.
Per mia figlia io non ti posso perdonare."
È un libro intenso, in certi passaggi ricco di azioni, che danno velocità e suspense alla narrazione.
Lʼautrice è molto brava a muoversi su due piani: i rapporti familiari e la grande storia, che, come succede spesso, si racchiude in pochi mesi.
Il perno intorno al quale ruota il racconto è il rapporto tra madre e figlia.
Per Rehana è scontato che Sohail si impegni nella lotta, anche se è sopraffatta dalla paura per la sua vita.
Non accetta il comportamento di Maya.
Verso la figlia si sommano pregiudizi sociali e problemi di comunicazione, di comprensione reciproca.
Quando Maya lascia la madre per andare oltre confine, per lottare da lì per la causa rivoluzionaria, Rehana esprime la sua angoscia e la invita a stare attenta.
Ma la figlia le dice che lei è sempre preoccupata per la madre.
"Rehana fu sorpresa ad ascoltare queste parole, ma capì che doveva essere vero, (...) una piccola finestra nel cuore sigillato di sua figlia.
Non era che lei fosse diffidente, era oppressa.
Oppressa dal padre amato, da colui che era scomparso, dalla sua propria madre vedova".
È un peccato che questo splendido libro frani nel finale, confuso, frettoloso e per certi aspetti inverosimile.
Il libro è sorretto da uno stile elegante, una sintassi semplice ed efficace, vocaboli ricercati dal punto di vista della lingua inglese ma nel contempo arricchiti da parole e modi di dire propri del bengalese.
Siamo di fronte al tanto atteso miscuglio dellʼinglese con la lingua locale, raro negli scrittori del continente indiano.
Perché leggerlo ? Una splendida lettura, che supera la storia specifica del Bangladesh per divenire un racconto di tutte le guerre di liberazione.