Gradimento Medio
e non lo rileggerei

Con gli occhi del nemico

scritto da Grossman David
  • Pubblicato nel 2007
  • Edito da Mondadori
  • Letto in Italiano
  • Finito di leggere il 05 gennaio 2014

Questo libro raccoglie quattro conferenze tenute da Grossman tra il 2004 e il 2006.
Due di queste riguardano la natura dello scrivere, le altre affrontano la situazione " spaventosa e ambigua e complessa" di Israele.
Ciò che unisce la riflessione sulla letteratura con quella sulla politica è la missione della scrittore: per Grossman consiste nel rifiuto alla "rinuncia alla possibilità di capire cosa io pensi veramente ...
Sicché, forse, sarebbe meglio non pensare, non sapere, affidare il compito di pensare, di agire e di stabilire norme morali a chi certamente ne sa più di me".
Grossman condivide quanto sostiene Vargas Llosa, nella prefazione a "la Zia Julia e lo scribacchino": la letteratura prende le mosse dal dissenso di chi scrive rispetto al mondo, da " quel che lui vorrebbe sopprimere, aggiungere o correggere nella vita".
Il punto di partenza è, tuttavia, una ricerca interiore, che richiama a Pamuk, per il quale " essere scrittori significa prendere coscienza delle ferite segrete che portiamo dentro di noi" ("la valigia di mio padre").
Per lʼautore israeliano,infatti, "lʼimpulso primario che innesca e muove la scrittura è il desiderio di inventare e raccontare una storia, e conoscere se stessi.
Del resto, più scrivo e più mi rendo conto della forza di un secondo impulso, che collabora e completa il primo: il desiderio di conoscere il prossimo dallʼinterno, da dentro ...
sentire che cosa significa essere unʼaltra persona".
E quindi il movente fondamentale " è lʼaspirazione a rimuovere, volontariamente, ciò che mi difende dallʼaltro", per superare "lo sforzo che facciamo per non scoprirci completamente con lʼaltro ...
per preservare ...il telaio in cui è contenuta, a volte imprigionata, la nostra multiforme ed erratica psiche".
Il perno di questo passaggio dalʼ io agli altri è costituito dai personaggi.
" Scrivere un romanzo significa, in larga misura, essere totalmente responsabili di qualche decina di personaggi".
Per spiegare questa affermazione, rilevante alla luce della povertà descrittiva e psicologica di tanti romanzi moderni, Grossman si affida ad una indovinata metafora.
Lo scrittore è come qualcuno che tiene decine di persone imprigionate in cantina.
"Ogni tanto gli converrà far quattro chiacchiere con loro...provare a calmare le tensioni...
ascoltare le loro storie e i loro ricordi, a rammentare loro tutto quello che resta ancora da sognare, da rimpiangere, affinché dimentichino per un momento la fossa soffocante in cui si trovano".
Dallʼattenzione sui personaggi discendono i compiti, che Grossman affida alla politica.
"Se cʼè una cosa che vorrei sperare che politici e uomini di governo possano prima o poi imparare dalla letteratura, è proprio questo modo di votarsi a una situazione, e alle persone che vi sono intrappolate", a causa in misura non irrilevante delle trappole che gli stessi politici e uomini di governo hanno contribuito a creare.
Lʼaccenno alla responsabilità della politica conduce alle conferenze che parlano della drammatica situazione di Israele.
Non si può non ammirare il coraggio, ma anche la dignità, di Grossman nellʼaccusare frontalmente le responsabilità del governo di Israele nel perseguimento di una politica di aggressione, che sta conducendo ad uno snaturamento dei fondamenti stessi dello stato di Israele, delle sue istituzioni, della stessa legalità, mettendo in moto un processo, che sembra irreversibile, di " smarrimento e di smembramento..
del corpo pubblico, sociale".
Tuttavia, la riflessione più interessante di Grossman riguarda un aspetto che spesso non viene sottolineato: la graduale scomparsa del "modello dellʼebreo universale, cosmopolita, che aspira a compiere una missione intellettuale e morale", sostituito dallʼutilitarismo, dalla forza e dalla competitività aggressiva.
Se la terra di Israele doveva essere negli ideali del sionismo un modo per porre fine alla Diaspora, rendendo il popolo ebreo finalmente "uguale" agli altri popoli, la paura e lʼostilità verso gli altri (innanzitutto verso i palestinesi) perdurano gli schemi psicologici e spirituali della Diaspora, questa volta in chiave aggressiva.
Da oppresso il popolo ebraico diviene oppressore.

È inutile cercare nelle conferenze di Grossman la leggerezza e la sottile ironia di Pamuk o di Vargas Llosa.
Non è solo lo stile dello scrittore, sempre serioso, complesso e meditativo.
È il dramma dellʼuomo, come persona (innanzitutto come padre per la perdita del figlio), come israeliano, che assiste al dissolvimento del proprio popolo, come ebreo, dinanzi al tradimento di valori millenari, che impedisce a Grossman di lasciarsi lontano le tinte cupe e drammatiche.
Lʼangoscia che trasuda dalle parole, il taglio filosofico delle considerazioni, il senso di un destino ineluttabile, al quale si può contrapporre solo lʼutopia, rendono la lettura pesante ed impegnativa, a tratti ripetitiva.
Solo in alcuni momenti ci si immedesima emotivamente con lo scrittore.
È quando, nella splendida commemorazione di Rabin, chiede con dignità di non giudicarlo con commiserazione ed indulgenza perché mosso da un " sentimento di rabbia e di vendetta" per la terribile tragedia della morte del figlio.
Anche il dolore può essere usato dal potere per far tacere il dissenso e la critica !

Perché leggerlo ? Le riflessioni sullo scrittore e sulla letteratura sono particolarmente interessanti.

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