Gradimento Medio
e non lo rileggerei

Una spirale di nebbia

scritto da Prisco Michele
  • Pubblicato nel 1966
  • Edito da Rizzoli
  • 330 pagine
  • Letto in Italiano
  • Finito di leggere il 11 novembre 2019
La vita è "una specie d'inganno, cui ci si addestra, questo mentire a se stessi su se stessi", sfuggendo (...) "la sconosciuta e torbida paura della rivelazione". Come in Open City di Cole Teju (vedi la recensione in questo sito), nel quale il protagonista dimenticò persino di aver violentato una ragazza perché "per me sono sempre l'eroe" (ma "il piacere della negazione non è stato possibile per lei"), pure questo romanzo indaga "quella profondità misteriosa e segreta fatta d'emozioni inespresse, di verità celate agli occhi di tutti". L'indagine assume la forma apparente del giallo. Valeria, la moglie milanese di Fabrizio Sangermano, una potente famiglia campana, è rimasta uccisa durante una battuta di caccia col marito: un incidente o un omicidio? C'è un commissario, ci sono numerosi personaggi che dovrebbero aiutare a dipanare la vicenda, ma non è questo che interessa all'autore: la morte di Valeria dovrebbe essere quel fatto traumatico che potrebbe finalmente dissolvere la nebbia dei sentimenti umani. Si sviluppano una serie di ritratti. Assistiamo alla riunione di famiglia, che discute sconcertata e preoccupata il possibile coinvolgimento di Fabrizio che trascinerebbe nello scandalo il clan Sangermano;  la discussione termina a un istante quando il nonno, il gran vecchio, "fece un cenno con la mano e poi disse: sono contento d'aver previsto la conclusione di questo nostro incontro", (...) nello studio si rifece il silenzio, zii e cugini assunsero l'espressione compunta che avevano imparato ad assumere alla perfezione dopo tanti anni di allenamento e di acquiescenza: facce attente indifferenti inespressive di persone a un tratto svuotate della loro più intima personalità".  Maria Teresa, una Sangermano che rischiava di restare zitella, ha sposato per volontà della famiglia un noto avvocato della Curia: un uomo stimato e influente. Il matrimonio non è stato mai consumato perché lui è impotente e quando lei ne viene a conoscenza (è stata ingannata dalle sue bugie), pur sapendo che deve infischiarsene dello scandalo, pur ripetendosi che non deve cedere, disse, "come in sogno senza rendersene conto" che andava bene così, "non se ne parli più, non avere paura". E che fa l'illustre avvocato della Curia? Fa mettere incinta la domestica per dimostrare che lui non è impotente e può chiedere lo scioglimento del matrimonio per colpa della moglie; e la moglie si chiude nel silenzio come estremo atto di dignità. Ci sono altre storie di inganno, di ipocrisia, di cose non dette, in certi casi semplicemente frutto di quel "monotono meccanico corso" della quotidianità, il quale allontana "irreparabilmente dall'essenza della vita, dallo scoprire che cosa veramente la vita sia, come succede a tanti milioni d'individui che crescono e vivono vite brevi o lunghe ma consacrati, si direbbe, per costituzione o incapacità o chissà che altro, a una specie di perpetua rinunzia alla vita". E' un approccio mortifero, che non poteva che non concludersi con un ritratto inquietante del funerale di Valeria, lei come morta finalmente parte della famiglia Sangermano, che l'aveva respinta in vita. Il nonno "si trovava in piedi fra l'altare e un inginocchiatoio in un atteggiamento compassato": era veramente commosso o fingeva? E i Sangermano sono tutti intorno, malgrado "nessuno piange, nessuno s'è commosso: ma era proprio necessario commuoversi? (...) E adesso ritornava la nebbia, (...) forse saliva proprio dalla terra senza alcun altro compito che questo di smussare ogni rilievo e confondere annullare almeno per il tempo della sua presenza anche loro: non loro persone fisiche, ma i risentimenti e le passioni e le speranze e le pene e le paure e insomma il nodo fitto inestricabile dei sentimenti."

Il romanzo è come sospeso: non c'è un finale e soprattutto la narrazione non si evolve, resta impigliata nell'introspezione psicologica dei personaggi, scavati fino in fondo, sezionati nei loro sentimenti ma senza empatia; d'altra parte non c'è dinamismo nella vicenda umana, tutto è rinchiuso nella superficialità delle relazioni sociali, nella rassegnazione di un destino individuale già segnato dalla società. Ricorda le gabbie esistenziali di Andre Dubus, i cui racconti non si sviluppano perché i protagonisti sono prigionieri dei rapporti interpersonali e delle loro menzogne ( si veda in questo sito "Separate Flights and other stories" e "Dirty Love"). Al di fuori delle vicende umane incombe un contesto grigio, non tempestoso, ma piovoso e nebbioso: "più che pioggia era una polvere d'acqua e cadeva adagio senza rumore come se fosse la nebbia a sciogliersi in una leggera e umida peluria d'argento".

E' un romanzo degli anni '60 ma la distanza stilistica rispetto ad oggi è abissale. Il "bell' italiano" del Liceo Classico invade l'articolazione sapiente delle frasi, la sua ricca punteggiatura, gli aggettivi ben scelti e ben collocati, le parole ricche di potenzialità espressive. Talvolta si è avvinti ma alla fine si capisce che l'autore pregusta la sua abilità con un narcisismo che pare dire: vedete come sono bravo! E noi sentiamo una intensa nostalgia per Cesare Pavese, per la sua scrittura sobria, scevra di virtuosismi. Forse non riusciamo più a scrivere come Prisco, e come Moravia, però è meglio cosi: la nostra lingua ne ha guadagnato in termini di leggibilità e fruibilità.

Perché leggerlo? Bisogna godersi la scrittura, è comunque una bella lingua.

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