È un libro insignificante.
È ambientato in Birmania dopo il 1886, quando lʼInghilterra trasformò questo vasto regno in una provincia dellʼIndia britannica, esiliando lʼultimo sovrano.
Il palazzo di vetro, titolo del romanzo, è la metafora di un mondo travolto dallʼimperialismo e dal capitalismo, ai quali ci si deve adeguare, pena lʼestinzione o, nel caso migliore, lʼoblio.
Il protagonista, Rajkumar, è un ragazzino, "uno straccioso indiano ...
con una sorta di vigile determinazione ..
non cʼera alcuna semplicità nel suo viso, nessuna innocenza: i suoi occhi era pieni di concretezza, curiosità, appetito.
Era come doveva essere".
Tradizione, radici culturali, valori ideali non possono avere dimora quando tutto viene sconvolto e bisogna sopravvivere e possibilmente arricchirsi.
Eppure anche in Rajkumar, già adulto quando era ancora ragazzino, cʼè spazio per i legami di affetto e lealtà, che non siano "relativi a se stesso e alle sue immediate esigenze, ciò era quasi incomprensibile".
Proprio durante il saccheggio del palazzo reale, il protagonista conosce Dolly, dodicenne damigella delle piccole principesse, figlie dei sovrani sconfitti e umiliati.
Si accende un amore che non abbandonerà più Rajkumar.
La storia si sviluppa in parallelo, permettendoci di seguire la scalata sociale del protagonista e la vita della famiglia reale, isolata e controllata strettamente dagli inglesi.
Nello sfacelo della casa regnante, Dolly matura in una donna riservata, apparentemente timida, ma sicura, colta e indipendente.
Si sposa con Rajkumar, diventato nel frattempo un ricco uomo dʼaffari, giovane ma già pingue.
Ma lo fa per amore o semplicemente perché vuole fuggire da una sorta di clausura dorata ?
Non posso rispondere alla questione se il matrimonio di Rajkumar e di Dolly sia frutto di un vero amore o più semplicemente del desiderio di entrambi di abbandonare il vecchio per il nuovo, la tradizione per la cultura del dominante imperialismo inglese.
Quando mi sono accorto che ero ancora al 40% del romanzo dopo ore di noiosa lettura, ho riposto il libro, sconfitto dalla pochezza della trama, dalla superficialità dei personaggi e dalla prosaicità della scrittura.
Leggendo il libro di Ghosh viene voglia di rileggere Kim di Kipling: un bieco cantore dellʼimperialismo inglese, ma ben altro scrittore !
Perché non leggerlo ? È noioso, inutile, banale.