All'inizio del racconto Dino Buzzati immagina che un abate dell'ottocento "con notizie succinte e molto chiare" parli di "una mirabile visione" alla vista del bosco vecchio; in una nota a piè pagina l'autore osserva come alcuni uomini colgano i segreti del bosco, li avvertono di "natura", altri non avranno mai questa sensibilità, "e passeranno impassibili (...) lungo le tenebrose foreste, senza neppure sospettare ciò che là dentro succede". La comunanza con gli alberi, la capacità di coglierne la magia sono proprie dei bambini; come spiega Bernardo, il gene-albero che si è assunto il gravoso compito di interloquire con gli adulti, "a una certa età tutti voi, uomini, cambiate. Non rimane più niente di quello che eravate da piccoli. Diventate irriconoscibili". L'età adulta fa perdere la qualità di sentirsi parte del tutto, di giocare nel bosco, insieme con gli animali, di capire il canto degli uccelli, di percepire e distinguere la variopinta e grandiosa orchestra dei suoni della foresta. Poiché gli adulti non ameranno mai la natura, il genio Bernardo è diventato amico del vecchio proprietario, persuadendolo a lasciare intatto il bosco vecchio. Che fatica trascorrere le serate in lunghe partite a carta, in noiose conversazioni mentre "entrava dalla finestra, con il profumo di preziosissime resine, la voce profonda dei suoi fratelli, che cantavano spensierati"! La situazione cambia quando muore il vecchio proprietario ed arriva il nuovo padrone. Procolo, colonnello in pensione, è un uomo rigido, cupo, solo e refrattario ad ogni comunanza con il bosco, quest'ultimo visto come un'opportunità di sfruttamento. Non è che sia avido, è soltanto un'anima meschina, e chi non è generoso come fa a trovare piacere dai brusii e dagli odori del bosco? Si allea con il vento Matteo per piegare i geni-alberi e costringerli a lavorare per lui nello sfruttamento della foresta, uccide la gazza che fa sentinella alla casa per poi precipitare nel silenzio della notte, chiuso nei suoi incubi. Infelice e cattivo, vuole liberarsi del piccolo Benvenuto, erede del bosco e di cui è tutore; con l'aiuto del vento Matteo, non esita ad abbandonare il bambino in aree selvagge del bosco, dove Benvenuto sarebbe sicuramente morto. Non ci riesce, crede che nessuno conosca il proposito omicida. Ma quando si inoltra nel folto della foresta, "ecco il canto degli uccelli affievolirsi, fuggire gli scoiattoli e i ghiri, farsi silenzio sulle rame e talora anche comparire nel cielo sinistri nuvoloni. (...) Evidentemente egli stonava in quel felice angolo di selva, evidentemente alberi e uccelli non lo potevano soffrire". Pure la sua ombra lo lascia, tanto è disgustata dall'aridità del compagno di tutta la vita. Procolo è solo. Eppure, pian piano, riluttante e sorpreso, in una notte insonne Procolo riconobbe i rumori della foresta. Ne contò quindici, meticolosamente annotati uno per uno. "Ma due e tre volte, quella notte, ci fu anche il vero silenzio, il solenne silenzio degli antichi boschi, non comparabile con nessun altro al mondo e che pochissimi uomini hanno udito". E la bontà che è in tutti gli esseri umani finalmente si libera della rappresentazione di sé, di quel "falso io" che lo aveva accompagnato tutta la vita. Procolo muore ma si salva.
Il racconto di Buzzati può essere interpretato come una affascinante metafora dell'anima umana, dove il bosco non è "la selva oscura" di Dante ma una sorta di paradiso scintoista nel quale gli alberi sono geni benevoli e i venti forze oscure ostili: una raffigurazione, insomma, del complesso groviglio della coscienza. Io preferisco interpretare "il segreto del bosco vecchio" in modo letterale, una grande favola della foresta, senza secondi significati. Cresciuto da genitori che amavano la montagna e che mi fecero trascorrere lunghe estati nel verde delle Alpi, camminare fra gli alberi ha fatto parte della mia vita, senza che ne capissi le ragioni. La lettura del racconto di Buzzati mi ha fatto comprendere la mia passione. Ed è proprio per questo che lo accosto a Petrarca, pur rendendomi conto di quanto ardito sia il legame. Quando Francesco Petrarca narra le sue passeggiate in Provenza e in Toscana, comprendo il sentimento che mi anima quando pure io procedo nella foresta: il desiderio di distacco dalla frenesia del mondo, il ritrovarsi con se stesso, solitario, silenzioso, concentrato nell'attività fisica, permeato della vitalità degli alberi, cosciente del legame fra tutti gli esseri viventi. Spesso vagabondando libero e senza meta tra le luci e i rumori della foresta mi vengono in mente i versi del Canto XXXV del Canzoniere: "solo et pensoso i più deserti campi/vo mesurando a passi tardi et lenti,/et gli occhi porto per fuggire intenti/ove vestigio human l'arena stampi".