In un "Diario di un fallito (2004) " Eduard Limonov immagina che <<verranno tutti. I delinquenti e i timidi (...). Gli spacciatori di droga e i procacciatori di clienti per i bordelli. Verranno gli onanisti, gli amanti di riviste e di film porno. (...) Verranno i pensionati che al supermercato fanno la coda nella fila riservata a chi compra meno di cinque articoli. (...) Verranno tutti, imbracceranno le armi, occuperanno una città dopo l'altra, distruggeranno le banche, le fabbriche, gli uffici, le case editrici, e io, Eduard Limonov, marcerò in testa alla colonna, e tutti mi riconosceranno e mi ameranno>>. Questo brano, riportato da Carrère, sintetizza bene chi fosse Limonov (1943-2020); questo D'Annunzio russo che ha attraversato il secondo Novecento come un superuomo, non volendo costruire qualcosa (che fosse letteratura o partito politico), ma perseguendo solo l'azione per l'azione, fuori da ogni schema, con un ideale di estetismo narcisistico. Per Carrère, Limonov è ciò che lui non ha mai osato essere (così la sorella descrive lo scrittore da piccolo: <<mio fratello è molto serio, non fa mai sciocchezze, legge tutto il giorno libri da grandi>>), e allora per vivere un po' da superuomo Carrère scrive un romanzo "reale" che ha il grosso difetto di attingere fondamentalmente agli stessi racconti autobiografici del personaggio. Ed è una fortuna per noi lettori che tutta la narrazione sia filtrata dall'aureola dell'immaginazione. Sin dall'inizio, quando Carrère lo incontra nel 2007, sessantacinquenne impegnato con Kasparov in un movimento liberal democratico, Limonov pare un personaggio eccezionale agli occhi dell'intellettuale francese: << è ancora asciutto: pancia piatta, linea da adolescente, pelle liscia e bruna da mongolo, (...) un po' il d'Artagnan invecchiato di Vent'anni dopo (...). O si diverte, lui, il bandito, la canaglia, a impersonare il ruolo del democratico virtuoso,,,? (...) Sotto sotto ci gode a fare il lupo nell'ovile?>>.Carrère ripercorre con leggerezza l'intera vita del nostro personaggio: il mito del padre ufficiale del glorioso esercito sovietico, mito poi distrutto dal declassamento sociale subito dalla famiglia; l'adolescente selvaggio, sempre con un coltellaccio in tasca, e comunque giovane poeta; il soggiorno a Mosca in piena era brezneviana tra intellettuali passivamente insofferenti del regime; e poi New York e Parigi dove riesce a pubblicare i suoi romanzi americani; ed ancora il ritorno a Mosca, la frequentazione con Aleksandr Dugin, il presunto ideologo di Putin, e insieme fondano il partito nazional bolscevico, che lo porterà in carcere da cui uscirà trionfante. Bisessuale, sempre contornato da bellissime e sensualissime donne, tra scene di sesso sfrenato e sottili conversazioni intellettuali, senza farsi mancare crimini e violenze nell'ex Iugoslavia (d'altra parte anche D'Annunzio ha conosciuto la guerra "rinnovatrice"), la vita di Limonov passa senza pentimenti, da vero superuomo; o è quella che l'ingannatore Eduard ci ha voluto raccontare e l'ingenuo intellettuale se l'è bevuta?
Quali che fossero le intenzioni di Carrère c'è da chiedersi perché non ha elaborato una storia originale, frutto della sua creatività, e ha voluto invece raccontare un personaggio reale. Questo approccio ha due difetti principali. Innanzitutto, si subisce la rappresentazione che di se stesso dà lo stesso Liminov, creando una sorta di lente distorta, che porta tuttavia ad esaltare personaggi così estremi, ma che piacciono molto all'industria mediatica perché innocui e magnificenti a un tempo. In secondo luogo la narrazione ha un decorso oscillante: incisiva quando si può attingere ai romanzi di Liminov (gli anni fino a Parigi e il carcere) per poi appiattirsi a cronaca quando si è dovuto usare altre fonti. Non è un caso che i colloqui si concentrano dove si usano le autobiografie di Liminov, ed è in quelle parti che la narrazione diviene più viva. Supponiamo che Carrère abbia voluto descrivere il declino dell'Europa e degli Stati Uniti e le cause dell'ascesa di Putin e dei sovranisti, perché non farlo con un'analisi storica secondo metodologie consolidate, o porsi un obiettivo più ambizioso: essere un nuovo Hugo o Dostoevskij capace di vera letteratura? Nella nostra mente Limonov sarà sempre rinchiuso nella sua epoca senza divenire universale ed eterno come Jean Valijean dei Miserabili o come i personaggi dei Fratelli Karamazov.
Il pregio del romanzo è lo stile narrativo, elegante e lievemente ironico. Ben costruito, anche se troppo ricco di nomi, la lettura procede piacevolmente, in particolare nella prima parte, senza dubbio la migliore sotto il profilo narrativo. La tensione cala già nel periodo parigino, che risente di un certo compiacimento tipicamente francese, per calare progressivamente sino a creare una certa insofferenza.
Perché leggerlo? Ben scritto e un'interessante rappresentazione del declino dell'Europa.