Sconsiglio vivamente
e non lo rileggerei

Dear Life (Uscirne vivi)

scritto da Munro Alice
  • Pubblicato nel 2012
  • Edito da Chatto & Windus
  • Letto in Inglese
  • Finito di leggere il 07 febbraio 2016

Il libro raccoglie quindici racconti, dei quali gli ultimi quatto "formano una parte separata, autobiografica nei sentimenti, talvolta anche nella realtà".
Per dare un senso complessivo a storie, che altrimenti potrebbero essere viste come episodi di una condizione femminile senza evoluzione e senza sbocchi ("troppo tardi per fare qualcosʼ altro.
Quando potrebbe essere peggio, molto peggio"), bisogna forse partire dallʼultimo racconto, "Dear Life", che dà peraltro il titolo allʼintera raccolta.
"Vivevo quando ero giovane alla fine di una lunga strada, o una strada che a me sembrava lunga.
Dietro di me, come io tornavo dalla scuola primaria, (...) cʼera la reale città con le sue attività e i suoi marciapiedi e i suoi lampioni per quando veniva buio.
(...) A marcare la fine della città cʼerano due ponti .....
la strada si divideva, una parte di essa andando a sud verso una collina (...) per diventare una vera autostrada, e lʼaltra correva intorno ai vecchi campi abbandonati per volgere verso ovest.
Questa strada ad ovest era la mia strada".
Nel leggere questa efficace descrizione di unʼinfanzia tra città e campagna, in quel nulla urbano e sociale che contraddistingue ormai i nostri spazi, la mente non può che andare ad una poesia di Pasolini: "povero come un gatto del Colosseo, vivevo in una borgata tutta calce e polverone, lontano dalla città e dalla campagna...quel borgo nudo al vento, non romano, non meridionale, non operaio, era la vita nella sua luce più attuale....
osso dellʼesistenza quotidiana, pura, per essere fin troppo prossima, assoluta per essere fin troppo miseramente umana" (Pier Paolo Pasolini Il pianto della scavatrice).
Munro disegna un ritratto chiaro e vivido di come strana, pericolosa e importante possa essere la nostra vita, a noi così cara; tutto ciò, però, non in astratto né in una prevalente dimensione di genere (la sensibilità femminile contrapposta allʼindifferenza maschile), ma nello specifico contesto sociale e quasi antropologico, nel quale noi tutti viviamo.
Prendiamo ad esempio alcuni racconti.
In "Amudsen" la protagonista arriva in un piccolo centro ad insegnare in un sanatorio per bambini ed adolescenti, malati di tubercolosi.
"Il mondo oltre il lago e la foresta era svanito", si vive isolati dalla realtà esterna; prevalgono le piccole cose: il freddo delle case, la stretta strada che corre attraverso il bosco e vicino alla segheria, il bar frequentato da boscaioli in attesa di essere richiamati alle armi.
La relazione tra la protagonista e il direttore del sanatorio è scontata e prosaica, si sviluppa senza clamore ed entusiasmo, in ambienti piatti, modesti, squallidamente piccoli borghesi, si conclude in modo ovvio, senza un vero perché.
Ma sono proprio la banalità della vicenda e il contesto angusto della piccola città a far dire alla protagonista: "niente cambia realmente quando si tratta di amore".
In "Corrie", nel tran tran di un matrimonio apparentemente solido irrompe una vecchia fiamma del marito.
La protagonista reagisce con la fuga, prende la macchina e si rifugia nellʼanonimato della grande città, in uno squallido motel, a mangiare e bere in un ristorante, dove si chiede se "qualche uomo, qualche vecchio, avrebbe pensato di abbordarla".
Ritorna a casa per sentirsi dire dal marito: "non è tanto la persona.
È come una sorta di atmosfera.
È un profumo", un desiderio di trasgressione.
"Quale mix di rabbia e ammirazione potevo sentire, dinanzi alla sua volontà di farlo.
Ebbe fine tutta la nostra vita insieme".
Anche qui non si capirebbe tutta la vicenda se la storia non partisse da "una non vita, ma sopravvivenza (...) nel cui arcano orgasmo non ci sia altra passione che per lʼoperare quotidiano" (Pasolini Ceneri di Gramsci).
Nel racconto "In vista del lago" una donna malata di Alzheimer va alla ricerca di uno specialista.
Le è stato indicato un indirizzo in un piccolo centro; la donna, incerta, fragile, vaga per il paese, perdendosi e chiedendo a passanti a loro volta insicuri di dove possa essere lo studio medico.
Arriva in una clinica, deserta e isolata: cerca di uscire, di scappare, ma la porta è diventata pesantissima.
"Apre la bocca per chiamare aiuto ma sembra che nessun grido potrà esserci".
Dʼ improvviso è salva.
È la storia di una donna che sente di perdere la memoria, ma perché lo svanire della coscienza avviene in uno squallido paesaggio urbano, e non tra grattacieli scintillanti e pieni di vita o in un dolce e meraviglioso prato pieno di fiori ?

Scrittrice raffinata e elegante, Munro si perde purtroppo in storie esili e inconcludenti.
I personaggi sono apparentemente descritti ma è pura tecnica letteraria, non cʼè un reale approfondimento: tutto resta sospeso.
Prevale unʼimpressione generale di stanchezza, di storie già scritte, riscritte con uno stile magistrale, ma senza passione, Solo negli ultimi racconti riemerge la forza narrativa, ma è troppo tardi.

Perché non leggerlo ? È esile, inconcludente e noioso.

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