Il libro raccoglie 29 racconti, una rassegna che comprende scrittori famosi, come Bassani, Buzzati, Gadda, Moravia, Pasolini, Pratolini, Cassola ed altri; ma anche autori meno noti, comunque rappresentativi della letteratura del nostro Paese.
Non si può dar conto di tutti i racconti, peraltro molti non particolarmente riusciti, mi soffermo solo su alcuni.
Essi hanno un tratto comune: parlano delle condizioni materiali di vita dellʼItalia degli anniʼ50, con un approccio tra verità e poesia, fra disegno sociale e storie personali.
Carlo Bernari è oggi uno scrittore dimenticato, ma nel 1929 compose un romanzo ("Tre operai"), che dava una visione realistica della condizione operaia sotto il fascismo e per questo ebbe una diffusione semiclandestina.
Nel suo lungo racconto, "Il crumiro", Bernari ci parla di Peppino, un napoletano pieno di risorse: nella Bari del dopoguerra riesce a trovarsi un lavoro di "tutto fare" in una fabbrica, a costruirsi una casa, ovviamente abusiva, ad allacciarsi alla luce e allʼacqua, sempre di straforo, e a mettere su famiglia.
"Alla napoletana, lo motteggiavano i suoi compagni di lavoro, quando al mattino scoprivano il rubinetto aggiustato, la nuova presa di vapore, uno scranno ricavato da una vecchia cassa da imballaggio (...).
Non proprio a regola dʼarte, ma in maniera approssimativa, sì alla napoletana, comunque però era fatto".
E se è vero che il tutto (la casa, il lavoro e la numerosa figliolanza) ha i suoi inconvenienti ("ma insomma, dentro ci sentono, fuori ci vedono, mi vuoi dire che amore è questo ?") Peppino sente di avere raggiunto tanti traguardi, modesti agli occhi di oggi ma importanti nellʼItalia di allora.
Quando, a seguito di una pioggia, che scrosciava da giorni, "ostruite le fogne, unʼacqua melmosa e verdognola rifluì dal sottosuolo (...) raggiunse lʼultimo cortile, dove abitava Peppino: e lì ristagnò" e distrusse la casa di Peppino e della sua famiglia, annientando i suoi sogni.
Con Rea, Prisco, Ortese ed altri, Raffaele La Capria appartiene a quella vena narrativa napoletana che risale a Matilde Serao.
In questo breve racconto ("Ninì prende il largo") La Capria parla di libertà, e lo fa con il mare di Posillipo.
Ninì è uno "scugnizzo".
La schiena nera, ossuta, chiazzata di sale, tuttʼuna con lo scoglio, già cominciava a scottare sotto il sole (...) Ma lʼattenzione di Ninì era concentrata nella conchetta trasparente, tra quelle quattro pietre del fondo, che se le pigliavi e le portavi su erano pietre come le altre, (...) e quando le vedevi invece sotto mezzo metro dʼacqua così chiara, erano piene di avventure".
Sta pescando il mazzone (un pesce di scoglio che "pure il gatto lo schifa"), quando un amico gli urla di salire in barca.
Ed ecco a remare verso la punta di Posillipo, a chiamare le ragazze perché si affaccino ai balconi, a fare il gradasso con chi sta fra gli scogli: e si "agitava col culetto sulla prua della barca, batteva coi calcagni sui fianchi, come a spronarla.
(...) Ora man mano che la barca avanzava, la linea dellʼorizzonte si spostava sempre più in là, dietro il Capo di Posillipo e il promontorio si ritirava sempre più nella costa, e davanti agli occhi di Ninì il cerchio perfetto del golfo si apriva lasciando intravedere altre distanze.
(...) A ripensarci, adesso, la conchetta trasparente sotto gli scogli di Palazzo DonnʼAnna pareva a Ninì non più grande di una bagnarola".
Bonaventura Tecchi ha vinto nel 1960 il Premio Bancarella col romanzo "Gli egoisti".
In "La ragazza della filanda", la protagonista è unʼoperaia "grande e ossuta quasi quanto un uomo", (...) conservando sotto quella membratura maschile una curiosa innocenza, in parte timida e in parte sempliciona".
Non ha ancora conosciuto il sesso e ride quando le compagne le dicono che lʼamore "è un gusto, presso a poco come quello che tu hai a mangiare le cose ghiotte".
"Pareva che quel suo stesso corpo, così squadrato e forte, fosse una corazza, entro la quale lʼamore non sarebbe potuto entrare per malizia, forse solo con la violenza".
E così avviene: un uomo, solo perché "lʼaveva sotto mano", le fa la corte, la convince a farsi portare a casa, e quando si accorge che "davvero non era mai stata toccata dallʼamore, ne ebbe quasi un senso di rancore, (...) e quando venne il piacere rapido, violento, e la gran soddisfazione, lʼorgoglio di lui, anche allora rimase (...) la volontà di umiliar lei".
E lei, piantata dopo pochi giorni, va "via sola giù per il viottolo, con quelle spalle ossute che sussultavano sotto lo scialletto, ma senza piangere." Giovanni Testori è conosciuto come autore di teatro, ma ha scritto numerosi racconti e romanzi.
La breve storia "Guardati intorno ed impara" è enigmatica, tanto che fino allʼultimo non ne è chiaro il senso complessivo.
Una giovane donna fugge da una casa, barcolla, si appoggia ad una parete, cerca di riprendere contatto con la vita: capisce "che non le resta nientʼaltro da fare che nascondere se stessa, non solo alle persone ma anche alle cose".
È questo lʼavvio di una storia: lentamente si dispiega, comprendiamo che la ragazza ha ucciso un uomo, non perché veramente lo volesse, ma per un meccanismo familiare.
Sorella, fratello e madre sono legati tra di loro da un nodo, che "nella sua elementarità era quasi tragico: legami che venivano trattenuti da ogni espressione sentimentale, ma che si manifestavano nella loro forza, allorché la vita della famiglia attraversava qualche situazione difficile.
Allora una parola, una domanda o un semplice riferimento bastavano perché i tre si ritrovassero costretti e quasi dannati a un solo destino.
(...) Sarebbe stato necessario distruggere, a furia di poter tutto, ogni residuo umano."
Le storie di Peppino, di Ninì, dellʼoperaia della filanda e della giovane donna sono paradigmatiche di una società e di una condizione esistenziale.
Darsi da fare, spesso inutilmente, desiderare la libertà, anche di un momento, accontentarsi di un amore qualunque, lasciarsi intrappolare dai meccanismi familiari, sono i tratti caratteristici di unʼItalia che è lì lì per cambiare, ma nella quale prevale ancora la rassegnazione.
Pur nel pessimismo prevalente i quattro racconti esprimono forza narrativa e innovazione: gli autori costruiscono trame eleganti ed interessanti, personaggi significativi e di spessore, hanno qualcosa da dire e lo fanno con una scrittura colta, ma già contemporanea.
La lingua parlata sta entrando in quella scritta e lo farà poi in modo prepotente, per ora serve a non far fare ai racconti "la figura barbosa e barbina dellʼantiquato (Antonio Baldini nellʼintroduzione).
Perché non leggerlo ? Sono quattro bei racconti, ma non valgono la fatica di leggere oltre cinquecento pagine..