Negli splendidi racconti di "Between the Assassinations" Arvind Adiga aveva sviluppato una cronaca pessimistica di un destino sociale immutabile, al quale si può sfuggire solo con una disperata scelta individuale.
Lo scrittore indiano torna sul tema con questo romanzo, che narra la storia della ribellione di un uomo, contro la cristallizzazione delle caste, lo sfruttamento del ricco sul povero, la prigionia sociale costituita dalla tradizione e dai legami familiari.
Non ci sono grandi idealità dietro la rivolta; cʼè banalmente il desiderio di avere "lʼopportunità di essere un uomo, e per questo, valeva la pena uccidere".
Lʼautore immagina che il protagonista scriva al primo ministro cinese per spiegare come si diventi imprenditori di successo nellʼIndia moderna, "centro della tecnologia e dellʼoutsourcing".
Non bisogna aver fatto lʼuniversità e vestire abiti eleganti: gli imprenditori sono fatti di "argilla mal riuscita", devono provenire dalla parte oscura della società ed avere la determinazione di chi non ha nulla da perdere, di chi sa che ci sono "solo due destini: mangiare o essere mangiati".
Il protagonista ha il profilo giusto.
È vero che nel povero villaggio, dove è nato e cresciuto, non gli hanno dato neanche un nome, ma lo chiamano soltanto Munna, ragazzo, ma, sin da bambino, sente che non è destinato a "restare uno schiavo".
Solo che non è così facile "sputare il proprio passato".
Bisogna liberarsi dalla "gabbia", nella quale si è stati rinchiusi fin dalla nascita.
Per rappresentare questo stato sociale, e psicologico, lʼautore usa una efficace metafora: il macello del pollame.
"Va nella vecchia Delhi e guarda come tengono i polli là nel mercato.
Centinaia di pallide galline e di brillanti galli colorati, rinchiusi strettamente in gabbiette di metallo, addensati come vermi in uno stomaco (...).
Su un tavolo di legno (...) siede un giovane macellaio, che sorride soddisfatto, mostrando la carne e gli organi di un pollo appena macellato (...).
I galli vedono gli organi dei loro fratelli che giacciono intorno.
Sanno che saranno i prossimi.
Tuttavia non si ribellano.
Non cercano di fuggire dalla gabbia.(...) Perché il desiderio di essere un servo è stato inseminato in me; scolpito nel mio cervello, chiodo dopo chiodo, e iniettato nel mio sangue, nello stesso modo in cui rifiuti e veleni industriali sono stati riversati nella Madre Gange.
(...) I servi devono impedire gli altri servi dal divenire innovatori, sperimentatori o imprenditori.
(...) La gabbia è conservata dallʼinterno".
Il racconto è appunto la liberazione del protagonista da questa sottile ma indissolubile prigione.
Per un caso, riesce a trasferirsi a Nuova Delhi come autista del fratello del boss del villaggio.
È ancora un servo a tutti gli effetti, a disposizione per qualsiasi esigenza; ma guidare lʼauto gli permette di accedere a tutti gli aspetti della vita del suo padrone, da quelli intimi ai loschi affari.
È una sorta di svelamento, di scoperta dei peccati e della vacuità dei ricchi.
Lʼubbidienza e la soggezione inculcati per secoli lo avrebbero, tuttavia, mantenuto un servo fedele; al massimo, si sarebbe concesso qualche innocente piacere, come fanno gli altri autisti: urinare nelle piante dei padroni, schiaffeggiarli mentre dormono, battere i loro animali domestici.
Un episodio contribuisce a fargli prendere coscienza.
La moglie del padrone investe un povero e la famiglia del boss vuole che Munna si dichiari colpevole e vada in carcere.
Gli stessi parenti del protagonista lo invitano a compiere questo sacrificio, come se fosse una cosa naturale.
Per fortuna la polizia, opportunamente pagata, chiude lʼinchiesta e non ci sono, quindi, conseguenze; ma il protagonista capisce lʼinconsistenza dei tradizionali valori di fedeltà e lʼipocrisia del benevolo paternalismo mostrato dal padrone.
Spesso deve condurre questʼultimo, con una borsa piena di contanti, a corrompere dei funzionari governativi.
Decide di approfittarne: uccide il padrone e si appropria dei soldi, ponendo le basi per divenire imprenditore di successo.
La caustica ironia della narrazione non deve ingannare: il romanzo è fortemente realista, un freddo resoconto sociale e una vigorosa denuncia politica.
Lʼintera società indiana ne esce dissacrata e palesata nella sua vera natura, sia quella moderna (il mito della più grande democrazia del mondo, lo sviluppo economico impetuoso e risolutore) che quella tradizionale, che tanto affascina gli occidentali.
Il protagonista è una figura stereotipata, freddo e cinico come il padrone che ha ucciso: una vera "tigre bianca", perché crudele e nel contempo rara.
Munna raggiunge il successo, ma non è questo che consola il lettore.
La speranza sta nel fatto che compie due atti di umanità: fuggendo dopo il delitto, rischia di essere catturato dalla polizia per salvare un cuginetto, che vive con lui; rimborsa la madre di un uomo che è stato investito da un suo autista.
Piccole cenni di solidarietà, che non ci fanno dimenticare come il protagonista non abbia avvisato i parenti della vendetta della famiglia del boss, che infatti li truciderà tutti.
Laddove ciò che è importante è "la dimensione della pancia", i soldi, cʼè poco spazio per essere "buoni" !
Il pregio principale del romanzo è lo stile narrativo: una scrittura sobria ma ricca.
Il difetto risiede nella trama, che non riesce a mantenere un intenso ritmo narrativo, rendendo il racconto spesso ripetitivo, con troppe parentesi di carattere sociologico e politico.
Nello svolgimento lʼautote non mantiene le aspettative che nascono dallʼ intrigante espediente letterario della lettera al primo ministro cinese.
Perché leggerlo ? Una forte impronta realista, una efficace scrittura.