<<Jirro in somalo significa "malattia", letteralmente è così. (...) Ma Jirro per noi è una parola più vasta. Parla delle nostre ferite, del nostro dolore, del nostro stress postraumatico, postguerra. Jirro è il nostro cuore spezzato. La nostra vita in equilibrio precario tra l'inferno e il presente>>. Questo libro parla di questa malattia, fisica e spirituale, lacerante e nostalgica; e lo fa con un taglio autobiografico, che si costruisce <<in costante movimento. Il passato non è mai fermo, segue i nostri cambiamenti>>, come scrive Scego nella sua postfazione. L'autrice immagina un colloquio con la nipote che vive a Londra, e la trama è cadenzata da parole chiave in somalo, che partendo da Jirro prosegue in una serie di tappe di storia personale, familiare e collettiva: eventi, relazioni, fisicità, memorie, profezia. Gli eventi sono due: il 1971, quando i genitori hanno abbandonato la Somalia dopo il colpo di stato di Siad Barre, il 1991, quando la Somalia precipita nel caos della guerra per bande. << "Nessuna strada ci riporterà a casa, figlia", dice lei (Halima, la madre di Scego) con una durezza che non le ho mai sentito prima. "Le strade sono state interrotte. Le case sono crollate su se stesse. Noi siamo diventati belve. E Mogadiscio è stata seppellita dai suoi stessi abitanti sotto un cumulo infinito di cadaveri">>. La Somalia in guerra, ma sempre lì nel cuore, strazia le relazioni tra la madre e Igiaba. Un giorno, nel 1989, la madre attraversa Roma per un possibile lavoro di domestica ma è respinta perché nera. <<Urla nel silenzio. (...) E con quell'urlo, senza voce, con quell'umiliazione senza tempo, si insinua nella mente colma di nostalgia lo skyline di Mogadiscio. Arrivato lì, al centro dei suoi sospiri, per confortarla>>. Torna in Somalia; scompare per due anni senza dare più notizie perché travolta dalla guerra civile. Per Igiaba, ancora adolescente, è un abbandono con un impatto devastante: comincia a soffrire di bulimia nervosa. <<Dagalka wabu dilai je'eelka. La guerra uccide l'amore. (...) Io vomito la guerra. Fino ad azzerare in me ogni sogno. Fino ad azzerare in me ogni me. Come quei parenti di mia madre persi nella bruma del loro scontento. E nel Jirro che non gli dava tregua>>. Al ritorno, Halima comincia a parlare alla figlia, <<da donna a donna>>. Se prima le aveva raccontato della sua infanzia, in campagna a pascolare le pecore, adesso le narra la sua vera vita. <<Il trauma di aver perso il paese natale lei e il paese di origine io ci accumunava nel lutto. (...) Voleva, a livello inconscio, (...) passarmi la sua vita. Perché non si trattava più di una storia famigliare e basta>>. Halima ricorda di come sia stata infibulata, e naturalmente <<parlava di papà. Costruiva la sua leggenda. (...) Lei una centralinista e lui un uomo bellissimo, primo cittadino di una città che odorava di spezie. Poi, avvolta nella sua veste bianca, ogni tanto (...) mi cercava con lo sguardo. E in quel contatto di occhi, io figlia, lei madre, pensavamo al profugo. All'esilio che avevamo attraversato insieme>>. Quella malattia agli occhi che perseguita oggi Igiaba, ormai verso la menopausa, quel non aver figli o un marito, tutto questo deriva, forse, dall'avere somatizzato la lacerazione della sua vita, lei italiana innamorata di Roma, lei figlia di una Somalia distrutta? Che la tragedia dei popoli colonizzati, sfracellati e destinati all'oblio, le sofferenze dei migranti del mondo, le guerre, le stragi , le donne e i bambini violentati e trucidati, che tutto questo sia un segno di un destino che ci aspetta, anche noi ricchi, confortati dalle nostre belle leggi, e dall'aria condizionata? Un' amica ha proposto a Igiaba di leggere le Troiane di Euripide. Al centro c'è Cassandra che dice: <<Io porto la fiaccola, io celebro, inondo la luce, vedete, con questa mia lampada il tempio. Come Cassandra, anche noi (umanità dilaniata) la portiamo la fiaccola. (...) Portarla è il nostro fardello>>.
I romanzi di Scego hanno un filone comune: l'intreccio tra storie personali e vicende generali e come sia possibile scoprire sé stessi, e gli altri, solo dal dipanarsi di questo inviluppo dentro la propria coscienza. E' quindi imprescindibile per l'autrice scrivere racconti complessi, con molte vicende parallele in un contesto fortemente politico, e poco psicologico. In "Oltre Babilonia" del 2008 il punto di sintesi è data dalla lingua, in quella scuola di arabo, dove gente di diverse provenienze studia questo "esperanto"; in "Adua" del 2015 l'autrice parla di un tradimento, di un'Italia amata che scaccia il migrante, e infine in quella commistione di realtà e fantasia che è "Una linea di colore" del 2020, due donne realmente vissute si sintetizzano in un personaggio inventato, che porta con sé le ferite dell'emigrazione e della schiavitù, (vedi le recensioni di questi libri in questo sito). In "Cassandra a Mogadiscio" Scego cambia prospettiva, come non mai parla di sé stessa, confessa le proprie fragilità fisiche e psicologiche. La brillante e simpatica scrittrice, incontrata in tante Feste dell'Internazionale, si rivela una personalità tragica, che evoca e interiorizza dolori esistenziali e planetari: un Ungaretti contemporanea. Parla della Somalia? No, sta parlando del suo Paese amato, l'Italia, sull'orlo della frantumazione, della sua Roma, in balia della violenza verbale e fisica, della sua adorata lingua, l'italiano, che pare ormai destinato a una regressione nelle sue antiche lingue locali. Insomma, narrando la sua famiglia e il suo Paese di origine, Scego riflette su sé stessa come italiana. Dov'è la Terra Promessa? O quella di Ungaretti è solo un'utopia disperata?
Il punto di forza di Scego è sempre la scrittura; pur in un italiano semplice e immediato, l'autrice evoca sensazioni che lasciano il segno nel lettore: sono spesso brevi frasi, messe lì inaspettate, non sempre inserite nel filo della narrazione, quasi che Scego si lasci trasportare dalle emozioni più che dalla trama. Quest'ultima è un punto di debolezza; la ricchezza della narrazione non è ricondotta in modo efficace a una sintesi facilmente rintracciabile dal lettore. A questa confusione narrativa contribuiscono gli espedienti letterari che tanto paiono piacere alla scrittrice; in questo caso sono i colloqui con la nipote così come la scansione dei capitoli per parole chiave, che spesso non sintetizzano i contenuti dei capitoli stessi. Scavando poi come non mai nel proprio intimo e nelle proprie relazioni fondamentali, in particolare verso la madre, emerge la carenza delle analisi psicologiche. Quelle di Scego, come di molti autori non occidentali, sono storie corali, introiezioni del dolore universale più che introspezioni dei propri sentimenti.
Perché leggerlo? Si scopre una Scego non conosciuta, la lettura è tuttavia difficile.