Lʼeditore presenta il libro come un romanzo a due voci, "quella di un padre e di una figlia".
Questa sintesi è sicuramente vera.
Adua è scappata dalla Somalia per fuggire un padre autoritario e per realizzare un sogno: lavorare nel cinema e diventare unʼattrice famosa.
In realtà è riuscita a fare un solo film, porno.
Dopo ventʼanni si ritrova donna matura, "Vecchia Lira", come i nuovi immigranti chiamano "le donne della diaspora".
Un poʼ per compassione e un poʼ per avere una compagnia, si sposa con un immigrante, che "bazzicava ubriaco molte zone di Roma (...).
Ma è a piazza dei Cinquecento (...) in quella piazza che lʼItalia aveva dedicato a dei soldati morti in Africa orientale, che io mi sono fabbricata un amore di cartapesta".
Nata da una donna forte e coraggiosa, Asha la Temeraria, unʼinfanzia felice da nomade tra capre e cammelli, una triste adolescenza a Megalo e a Mogadiscio, una vita desolata e banale a Roma, che cosa nʼè dei sogni di Adua ? "Volevo essere libera di correre nel vento.
(...) Sentivo che la grande città si sarebbe mangiata tutta la mia purezza, tutti i miei sogni".
Lʼautrice ci offre squarci della vita di Adua, ma di fatto parla sempre delle sue delusioni, della sua fatica per sopravvivere,comunque.
Zoppe, il padre, vive in unʼaltra epoca, durante il fascismo e lo spietato colonialismo degli italiani.
Collabora con questʼultimi come traduttore, si rende servo, assiste alle trucidità, ai soprusi, ai comportamenti razzistici e sprezzanti dei nostri connazionali, in Italia come in Somalia.
Anche in questo caso la narrazione è fatta di spicchi di esistenza, non tanto importanti per quello che dicono, quanto per ciò che resta sotteso: il disprezzo per sé stessi e nel contempo il fascino, tradito, per lʼItalia e la sua lingua.
Zoppe è tuttavia un tradizionalista, che non esita a far subire alle figlie lʼinfibulazione, perché "dopo ci sarà solo la felicità di essere pura, finalmente chiusa come Dio comanda".
È un padre autoritario, disapprova e disprezza le aspirazioni della figlia, cinicamente e crudelmente vuole recidere il ricordo della madre di Adua, morta dandole alla luce.
"Ma ecco, smettila di nominarla.
Quella donna non è niente, è solo un errore".
Le due storie, di Adua e di Zoppe, vanno in gran parte in parallelo, come due rette che non sʼincontrano mai, non perché le loro vite si svolgano in tempi e contesti differenti, ma perché padre e figlia non si parlano, sono troppo distanti, mancando ad entrambi la capacità di esprimere il loro amore.
"Mi piace Roma dʼestate, soprattutto la sua luce di sera, sul far del tramonto, è calda, e anche i gabbiani diventano più buoni e viene voglia di abbracciarli.
Sono i padroni delle piazze, ma qui ci sei tu, elefantino, e loro non si azzardano.
Via, state lontano da piazza Santa Maria sopra Minerva ! Mi sento protetta vicino a te.
Qui sono a Magalo, a casa".
Le parole di Adua "si sciolgono e si perdono".
Guarda la negra, parla da sola".
E Zoppe cammina per la Roma fascista e "la visione era ancora lì a confortarlo (...) Gli alberi...
la cupola di San Pietro...
poi il glicine in fiore ...
lʼodore delle donne...
i sorbetti da passeggio...
il passo marziale dei soldati...
il fruscio delle gonne arcobaleno....
le loro speranze dipinte di blu".
Ecco ciò che lega padre e figlia: lʼamore per Roma.
Scego narra molto della Somalia, il lettore percepisce fortemente il desiderio di ritornare idealmente alla terra natale, di riappropriarsi della lingua, dei suoi suoni e delle sue immagini.
Ma il romanzo parla soprattutto di un tradimento, di unʼ Italia, di una città, Roma, di una lingua e di una storia, le quali, come donne amate ma troppo belle per essere conquistate, rifiutano i corteggiamenti e gli approcci dei nuovi italiani.
Devo dire che ho avuto spesso la tentazione di abbandonare la lettura, e sono andato avanti, sino a conclusione, solo per simpatia e stima per lʼautrice.
È difficile scrivere due storie in parallelo, ma lo è maggiormente se ci si affida ai "flash back", agli incisi onirici, a frasi sospese e poco chiare.
Senza una trama, che dia ordine al tutto, emerge una grande confusione, un affollarsi di pensieri e di immagini, che rendono pesante la lettura.
Scego perde in questo romanzo la lieve ironia e la sottile eleganza che contraddistinguono la sua scrittura.
Forse, ha chiesto troppo alle sue capacità; unʼoccasione persa.
Perché non leggerlo ? È confuso e alla fine noioso.