Gradimento Medio-alto
ma non lo rileggerei

Io non mi chiamo Miriam

scritto da Axelsson Majgull
  • Pubblicato nel 2014
  • Edito da Iperborea
  • 541 pagine
  • Letto in Italiano
  • Finito di leggere il 26 aprile 2022
"Si vede seduta nel suo bel soggiorno, nella bella villa che Olof ha ereditato, con i bei mobili che ha comprato perché guadagna bene. (...) La gonna scozzese diventa un vestito a righe da prigioniera, le calze svaniscono e le scarpe scivolano via nel nulla, il parquet sotto i suoi piedi è di colpo cemento grezzo, (...) e Miriam grida, grida e sente se stessa gridare e si tappa la bocca con le mani per costringersi a tacere." Non è solo perché riaffiora di continuo il ricordo di Ravensbruck e di Auschwitz, Miriam porta con sé il peso della menzogna, e del tradimento. Per tutti, anche per il figlio e la nipote, Miriam è un'ebrea che ha trovato accoglienza nell'ospitale e ordinata società svedese; in realtà prese l'identità di una ragazza morta, che portava impresso un marchio simile a quella di Malika, di lei giovane rom; nessuno avrebbe accolto la deportata Malika, appartenente ad un popolo considerato il più infimo tra tutti i paria del mondo (ladro, spergiuro, rapitore di bambini, violento e così via).  Ha ottantacinque anni, le viene regalato un bracciale che è un pezzo di artigianato zingaro. "Le lacrime le salgono agli occhi costringendola a battere le palpebre per scacciarle e le parole le balenano nella testa, (...) poi lascia che quelle parole le affiorino alle labbra". La verità, immediatamente sconfessata, mette in moto un racconto che si dipana su due filoni narrativi: la lunga passeggiata con la nipote, la quale  vuole indagare cosa ci sia dietro l'oscura dichiarazione della nonna, e il disumano dei campi di concentramento che deve essere scacciato dall'animo per non essere travolti. "Non si può parlare di tutto! (grida Miriam) Devi capirlo. Non, se si hanno ottantacinque anni e si è della razza sbagliata, (...) Lo capisci o no? E' successo davvero. Era tutto reale. Era un altro mondo e io non ci voglio tornare". Ed ecco irrompere nella mente Auschwitz dove viene subito uccisa la cugina e dove il fratellino viene usato come cavia umana, e dove il popolo rom si rivolta e verrà sterminato in massa nelle camere a gas; il campo di lavoro di Ravensbruck, dove, insieme con la spietatezza delle sorveglianti, incontra, lei così diffidente, l'amicizia e la solidarietà. Ma i morti tornano sempre, sono dietro a porte che è facile aprire. "E va bene. Che vengano pure. Sarà anche vecchia, ma è ancora in grado di uccidere qualche fantasma del passato. (...) Si, è lei, è proprio Anuscha (la cugina uccisa). Ha dieci anni e non è ancora successo niente di male. (...) Quando allunga la maniglia la mano si muove maldestra e in gola è in agguato il pianto, ma ecco che la porta si apre, si spalanca e compare Else (l'amica del campo di concentramento). E' ancora alta e magrissima come uno stecco, ma sembra sana e sazia e indossa vestiti integri. (...) Siamo destinati a perdere tutto, anche le persone che hanno più importanza per noi. E per questo non tenta più di trattenere il pianto, per questo allungandosi verso la quinta porta lascia scorrere le lacrime. Dentro la sta aspettando Didi (il fratellino ridotto a cavia). (...) E' una traditrice. (...). Di qui la sua vergogna. Ha tradito i morti. Ha tradito il suo popolo e la sua lingua. (...) Da un lato ci sono loro. Dall'altro però restano quelli che non ha mai tradito. Anuscha. E Didi. (...) Mi mancate ancora, ogni giorno."

Scrive Elsa Morante in "Menzogna e sortilegio" (vedi la recensione in questo sito), "il passato e il futuro sono due campi di nebbia e di vertigini, che i vivi non possono esplorare se non con la fantasia e con la memoria. A che serve sondare questa reggia della morte?" "No, disse suo padre con una voce che veniva da un luogo lontano. No, Non ricordare. Dimentica e guarda avanti". Per far questo bisogna ingannare e tradire. Ed ancora Morante: "una lucida insonnia s'impadronisce di me, e io, nella camera taciturna e spopolata, altro non potrò interrogare d'ora innanzi che la mia vera memoria".Conservare per tutta la vita il proprio segreto, ritrarsi dalla tentazione di rivelare la verità  sono l'unico modo di custodire il proprio dolore, l'enorme sofferenza che le deriva dalla perdita dei suoi cari e insieme con essi dall'appartenenza di un popolo, quello rom, disprezzato e calpestato.

La struttura narrativa ha una trama circolare: l'autrice torna sugli stessi temi, situazioni e personaggi così da portare avanti un'indagine sociale e introspettiva per approssimazioni successive. La parte relativa alla vita nei campi di concentramento si appoggia su fonti documentali e assume spesso i connotati della cronaca; non poteva che essere così, forse, perché l'autrice non racconta una storia vera né ha vissuto l'esperienza del lager. Le interviste con sopravvissuti le permettono di dare spessore al racconto, in particolare quando parla della vita delle detenute e delle relazioni che si intrecciano tra di loro. In altre pagine, come nella rivolta dei rom, la narrazione risulta piatta e scontata. Diversa pare invece la parte relativa alla vita di Miriam in Svezia: la finzione dà libertà di movimento alla narrazione, la quale assume colore e spessore perché l'autrice conosce molto bene il contesto sociale e culturale. Emerge una lieve ironia dei costumi della società svedese, valorizzati dalle capacità mimetiche di Miriam: giovane donna capace di interpretare i segni del corpo, l'intonazione della voce e i comportamenti di un popolo, quello svedese, per lei così lontano. A creare confusione sono i continui andata e ritorno tra il presente e il passato, tra la realtà e la rimembranza: forse una maggiore linearità della struttura narrativa avrebbe aiutata la lettura.

Perché leggerlo? libro importante e innovativo, va oltre alla storia dell'Olocausto.




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