Beatrice, detta Bea, è una ragazza torinese, cresciuta in una tipica famiglia borghese, amante della montagna, delle palestre di roccia, delle ascensioni alle grandi cime, di quel vedere l'alpinismo come una performance, una competizione con se stessi e con gli altri. Di lei sappiamo poco perché l'autrice non indaga la storia di Bea prima della sua scelta: quella di andare a lavorare in un rifugio. Intravediamo un'anima solitaria e inquieta che cerca una vita autentica, che non trova più nella città così come nelle alte vette. Quando è già a lavorare nel rifugio e ha iniziato un' esile storia d'amore con Elbio, "il bel pastore", Dea racconta al ragazzo, meravigliato e innamorato, di un suo incontro con uno sherpa, cui chiese che cosa si provava a stare sull'Everest. L'uomo rispose semplicemente che è bello. <<Io mi aspettavo una rivelazione sulla vita, non lo so. Rimasi delusa, ma probabilmente fu più deluso lui, perché ero l'ennesima persona che della montagna non ci aveva capito nulla. (...) In realtà non c'è nulla. Solo ghiaccio, roccia e tantissimo cielo>>. Il romanzo parla, invece, dei boschi di larici, dei rifugi ai piedi delle vette, degli alpeggi e delle malghe, di luoghi spesso visitati ma per noi semplici accessori dei sublimi panorami. Aidala racconta la vita di questi ambienti in modo minuzioso: c'è il Barba, il gestore del rifugio, burbero e caparbio come deve essere un uomo che vive in alta montagna; ci sono i compagni di lavoro, tutti maschi che accolgono Bea tra loro come se fosse un ragazzo, solo con un pizzico di affettuosa galanteria; ci sono gli escursionisti, numerosi nei fine settimana, chiassosi, esigenti e spesso maleducati come sono troppe volte i turisti. E ci sono pure le donne e gli uomini degli alti alpeggi, dove si portano le bestie al pascolo durante l'estate. Ancora l'occhio di Bea si accende alla vista delle alte cime, ma è già attratto dalla prosaica e dura vita della montagna. <<Il rifugio si trovava all'ingresso di un altopiano che apriva su un anfiteatro di cime, le più alte di tutta la valle. (...) La Becca (vetta di 3000 metri di altezza nei contrafforti del Monte Rosa) si stagliava di fronte a me con le sue guglie mozzate, su cui la presa bianca del ghiaccio aveva allentato gli artigli. Dal terrazzo del rifugio sembravano stringermi in un abbraccio che in quel giorno di nubi fosche si era trasformato in una morsa. (...) Nella nebbia, che le vacche si stessero avvicinando si intuiva dal vibrare dei campani, dai richiami dei pastori, dall'abbaiare dei cani. La stessa orchestra arrivata quassù all'inizio di giugno adesso si stava spostando altrove: il freddo calava come un falco in picchiata, i pascoli futuri orizzonti di terra brulla>>. Sospesa tra tanti mondi (la nostalgia del frastuono della città, il fascino ancora intenso delle cime, la sottile attrazione della natura della montagna e dei suoi veri abitanti), Bea pare aver trovato un equilibrio nel faticoso lavoro del rifugio, nell'amicizia, nella figura severa e paterna del Barba. Tanta è la convinzione di avere scoperto la propria dimensione di vita che Bea rimane con il Barba pure nel lungo inverno, quando il rifugio è frequentato da pochi visitatori o persino isolato dalla neve. Quando un episodio irrompe a travolgere questa sicurezza. Rimasta sola nel rifugio, perde la testa nel momento in cui il Pronto Soccorso Alpino le chiede di chiamare il Barba e comunque di presidiare il rifugio: due alpinisti si sono persi sulla Becca. <<Che la gente lassù muore lo devi accettare come una mela che cade dall'albero. (...) Furono per me giorni di confusione. Il rifugio mi appariva distante, fluttuavo senza meta. Avevo creduta di essere riuscita a ricavarmi uno spazio tra gomitate e spintoni, notti insonni, servizi estenuanti. (...) Tutto mi era familiare, eppure non mi apparteneva più nulla. Per la prima volta mi sentii davvero "strangera", senza patria, senza una casa a cui tornare>>. Bea decide di lasciare il rifugio e di cercare una nuova vita, in montagne lontane dalle grandi cime, da quelle vette, splendide e misteriose, crudeli e assassine.
Se il tema centrale del romanzo è il rapporto con la montagna, così importante da offuscare l'analisi della personalità di Bea e dei suoi esili amori, c'è un altro argomento che attraversa il racconto: è il rapporto tra la ragazza e il Barba. Questi ci appare all'inizio come un uomo duro, con quegli ordini precisi, con quelle parole taglienti, che parevano avere <<un incidere diverso, una cadenza sospetta. (...) Il Barba aveva (...) il volto severo, i movimenti sgarbati, una tenerezza spigolosa. Se fosse stato un albero, sarebbe germogliato noce. Di solito il noce non cresce in quota, non si trova in mezzo ai boschi ed è sempre solitario>>. La sua interlocuzione con Bea, questa cittadina sprovveduta!, si sintetizza in una frase sprezzante: <<Tu non capisci niente di qui>>. Pian piano, dietro questa scorza di montanaro burbero, si rivela un vecchio paziente e fiducioso, che dà spazio alla ragazza: piccoli cambiamenti nella routine del rifugio, due gatti voluti da Bea per tenere lontani i topi, la presenza di Elbio, con le effusioni tra innamorati, le richieste di Bea che il ragazzo possa fermarsi per la notte, richieste tanto più sconcertanti per il Barba perché il povero ragazzo è sempre spedito a casa. D'altra parte solo Bea può decidere se fare all'amore o meno! Lentamente, veniamo a conoscere la storia del Barba, della sua solitudine: un desiderio di vivere appartato che l'uomo condivide con Bea, quasi che sia l'io specchiante della ragazza. Nel lungo inverno del rifugio, Bea non è più la cittadina ignara della vita di montagna, la ragazza è per il Barba una sorta di figlia, di tutto ciò che l'uomo non ha avuto, o non ha voluto per il rifiuto sprezzante degli altri. Ed allora, quando Bea le rivela la decisione di tornare in città, forse per alcuni giorni, forse per sempre, l'impostore Barba la inganna, chiedendo di attendere alcuni giorni pur sapendo dell'arrivo della neve e quindi dell'impossibilità di lasciare il rifugio. E' una debolezza da vecchio solo, per Bea è un tradimento, che rompe definitivamente il legame con il Barba. <<Se la montagna fosse stata viva, anche io e lei in quel momento saremmo stati affini. Mi sentivo spoglia come un pendio da cui si è appena staccata una valanga>>.
I pochi brani riportati danno l'idea dello stile di Aidala; lo possiamo definire un approccio lirico, che descrive gli stati d'animo della protagonista mediante una descrizione dei paesaggi, delle situazioni e delle vicende. In un gioco ambiguo e sospeso di frasi eleganti e fluenti, Bea non si rivela al lettore, resta nascosta dietro le ombre e le luci delle montagne. Tutto pare etereo e distante; questa sensazione deriva anche dalla debolezza della trama e dall'evanescenza dei personaggi: sbiadite figure che avrebbero desiderato una scrittrice più disponibile ad approfondire le personalità, a vivere anche dal punto di vista degli altri, e non solo dal suo.
Perché leggerlo? Mette al centro una montagna raramente narrata.