Pochi anni prima di morire, un illustre giurista ripercorre la propria infanzia, in una Nuoro senza tempo; e "come in un negativo che si sviluppa, volti remoti ricompaiono, (...) e forse mentre penso alla loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno della loro memoria".
Potrebbe essere una banale autobiografia, interessante perché racconta di una Sardegna (tra lʼOttocento e il Novecento), dove ancora cʼera "un senso magico delle cose, per cui ogni atto era un rito, ogni parola lʼeco di unʼaltra parola, ogni fatto un mistero", e lʼunica speranza era quella di "crearsi fantasmi, ai quali aggrapparsi".
Se fosse solo questo, il libro potrebbe riposare per sempre negli scaffali polverosi, dove mettere le troppe storie familiari e descrizioni, nostalgiche e spesso folcloristiche, di una società, che non cʼè più e non potrà mai più tornare.
Il romanzo vive, invece, al di là del contesto, perché parla di un altro argomento: la morte come dissolvimento della memoria.
Poiché "ognuno di noi, anche se si limita a guardare in se stesso, si vede nella fissità di un ritratto, non nella successione dellʼesistenza", così il romanzo è composto da personaggi ed episodi, a prima vista isolati e ripetitivi; il lettore ne ricava una sensazione di frammentarietà e incompletezza, di confusa e superficiale narrazione.
Si vorrebbe di più, soprattutto quando lʼ autore parla del nucleo principale del racconto: il padre patriarca, autoritario ed assente, la madre, apparentemente ai margini ma centrale nella cura della casa e dei figli, i numerosi fratelli, i tanti libri che raccolgono con amore e con i quali "la fantasia entrava nella casa austera (...) e operava silenziosamente, toccando con la bacchetta magica uomini e cose".
Vorremmo sapere di più del piccolo Sebastiano (dietro il quale si nasconde lʼautore), del suo legame, gioioso ed infelice, con il fratello Peppino, della loro comune passione per la rilegatura dei libri, di "unʼindustria infantile", priva di senso forse, eppure espressione della "fantasia del gratuito".
Ed invece restiamo delusi, perché le tante storie e i tanti personaggi devono convergere su un solo obiettivo, narrativo ed esistenziale: il giorno del giudizio, lʼestinzione della memoria e con essa dellʼesistenza stessa.
Sebastiano è in procinto di partire da Nuoro per andare a studiare a Sassari.
Lʼautore tratta questo episodio di sfuggita, quasi volesse dimenticarlo.
Donna Vincenza, la madre dei numerosi figli, "gli preparò il viatico con le buone bistecche impanate, e le frittelle spolverate di zucchero.
Sebastiano lasciò tutto lì, vergognoso di sua madre, (...) e partì nel buio della notte, come uno ansioso di appartenere agli altri".
E che dire di Pietro Catte, che era andato in continente ad arricchirsi, e che un giorno scese dalla corriera, "tra ghigni e sberleffi", e "come un autonoma si mise in corteo", seguendo il richiamo del guidatore, "il diavolo in persona, con le corna e la barba aguzza e la coda ritorta", che lo condusse ad impiccarsi ad una grande quercia.
E Gonaria, che parlava con Dio, e fu tradita perché Dio lasciò morire il fratello canonico; ed allora, la povera donna chiuse per sempre la stanza del fratello, per aprirla dopo venticinque anni e scoprire che era diventata un nido di topi, i tarli avevano divorato i mobili e dal soffitto pendevano grappoli di ragnatele.
"Se non si muore si vive.
E questa verità, che sembra ovvia, è invece gravida di conseguenze, perché la vita trasforma tutto, non cʼè nulla che resista alla sua implacabile verità.
(...) Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa.
E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale".
Non è un libro facile: numerosi personaggi e tante storie si susseguono senza un ordine evidente.
Spesso bisogna riprendere il filo del racconto; se ci si lascia andare invece, la mente va a sé stessi, alla propria vita, al ricordo di chi lʼha vissuta con noi, e di come questa memoria si è dissolta nel tempo, perché "se non si muore si vive".
Ed allora ci si accorge che non è tanto importante fare una "cronaca" dellʼesistenza, quanto vagare nella rimembranza, perché, come dice lʼautore, non si tratta dellʼaltrui destino, ma del nostro; e cʼè un momento in cui anche noi abbiamo il nostro giudizio finale.
A rendere agevole la lettura aiuta una scrittura raffinata, semplice ed elegante: si intravede il linguaggio giuridico; lungi dallʼessere un difetto dà lentezza e ponderatezza alla narrazione; è cio che ci si aspetta ed evita di banalizzare i ritratti, i loro personaggi e le loro storie.
Bisogna lasciarsi invischiare nel racconto, così come la nostra memoria, ottenebrata dal tempo, corre lungo la nostra vita.
Perché ricordare veramente il passato, non è meglio farsi guidare dallʼimmaginazione ? Solo il mito apre i nostri cuori al mistero.
Perché leggerlo ? Piacevole e profondo.