Anna Maria Ortese ritorna a Napoli, città dalla quale manca da molti anni.
Ufficialmente ha avuto lʼincarico di intervistare i giovani scrittori napoletani, alcuni già noti, altri che lo diventeranno: Prisco, Rea, Incoronato e La Capria.
Un lungo capitolo descrive, appunto, la visita a questi autori e noi capiamo come il risveglio culturale e politico della città dellʼimmediato dopoguerra si sia ormai dissolto, lasciando delusione, rassegnazione e pessimismo, e spingendo alla fuga, verso Roma e Milano.
Quando incontra Prunas, lʼanimatore della rivista Sud, ormai chiusa, ma intorno alla quale tanti intellettuali si erano raccolti pieni di ardore e di speranza, Ortese percepisce "un dolore e una curiosità infinita: devi avere pietà, dicevano quegli occhi spenti, devi evitare di guardare.
È vero che siamo morti ?, chiedeva, è vero che siamo stati assorbiti dalla città, e ora siamo in pace ? (...) La città lo aveva distrutto.
E perché non avrebbe dovuto distruggerlo ? Tutti erano caduti, qui, quelli che avevano desiderato pensare o agire, tutte le lingue si erano confuse ed erano andate ad incrementare la dolorosa vegetazione umana.
Questa natura (Napoli e la sua gente) non poteva tollerare la ragione, e di fronte allʼuomo muoveva i suoi eserciti di nuvole, dʼincanti, perché egli ne fosse stordito e sommerso." Lʼinchiesta giornalistica è solo un espediente: lʼautrice vuole perdersi, spaesarsi, ricercare una "visione dellʼintollerabile", possibile solo in una città, come Napoli, nella quale tutto è "pensato, immaginato, sognato, e anche realizzato artisticamente, ma non vero: una inquietante rappresentazione".
Il libro si apre con alcuni bozzetti di vita napoletana, dei quali il più riuscito è senza dubbio il primo, "Un paio di occhiali".
In un putrido e maleodorante rione il sole non tocca che i balconi più alti e il resto non è che ombra e immondizia; eppure la gente saluta con gioia la giornata di sole, come se "quellʼaria, quella festa e tutto quellʼazzurro chʼerano sospesi sul quartiere dei poveri fossero anche" cosa loro.
Una povera ragazza, pressoché cieca, è in trepida attesa degli occhiali, che la famiglia le ha comprato con i pochi risparmi.
Ma chi non ha mai visto comʼè veramente la realtà ne può sopportate la vista ? Non è meglio vedere tutto sfocato ? "Eugenia, sempre tenendosi gli occhiali con le mani, andò fino al portone.
(...) Improvvisamente i balconi cominciarono a diventare tanti (...) i carretti con la verdura le precipitavano addosso; le voci che riempivano lʼaria, i richiami, le frustate, le colpivano la testa come se fosse malata.
(...) Tanti buchi, tante formiche"; le prese uno smarrimento, la realtà era troppo intensa per sopportarla.
Ai bozzetti, brevi, eleganti e suggestivi, segue la narrazione di una visita ad un grande fabbricato, nel quale trovano alloggio famiglie che non sono più in grado di permettersi un appartamento decente.
Lʼautrice viene guidata per i lunghi corridoi, dal primo piano, composto di antri oscuri e maleodoranti, sino al terzo piano, dove ci sono dimore più pulite e luminose.
La strada di chi entra nel palazzo è sempre la stessa: dapprima va ad abitare nel piano più elevato, per discendere poi, inesorabilmente, più in basso.
"I bambini, una volta lindi e sereni, in quel buio si coprivano dʼinsetti e i loro volti diventavano sempre più gravi e pallidi, le ragazze si mettevano con uomini sposati, gli uomini si ammalavano.
Non risaliva più nessuno, da giù.
(...) Cʼera qualcosa che chiamava da giù, e chi cominciava a scendere era perduto, ma non se ne accorgeva che alla fine".
Il grande caseggiato è la metafora della condizione antropologica, sociale ed esistenziale di Napoli, dove plebe e borghesia convivono tra loro indifferenti, come "ombra, debolezza, nevrastenia, rassegnata paura e impudente allegrezza".
Nella prefazione allʼedizione del 1994 Ortese ammette che "la scrittura del Mare ha un che di esaltato, di febbrile, tende ai toni alti, dà nellʼallucinato: e quasi in ogni punto della pagina presenta, pur nel suo rigore, un che di troppo: sono palesi in essa tutti i segni di una autentica nevrosi".
Questo giudizio è la diagnosi perfetta del libro: le singole pagine, le frasi e le parole sono spesso splendide, ricche e capaci di rendere pienamente le situazioni e i sentimenti; ma lʼinsieme risulta disordinato, confuso e sospeso, tanto che le conclusioni bisogna trarle dalle parole stesse dellʼautrice.
E ʼun grido, una disperata indignazione contro una realtà, per Ortese "incomprensibile e allucinante": la fine del sogno della rinascita di Napoli, e pertanto è una sconfitta.
Perché leggerlo ? È scritto molto bene e soprattutto la visita al grande caseggiato è di una vivezza impressionante: un vero capolavoro.