Gradimento Medio
e non lo rileggerei

Rapsodia irachena

scritto da Sinan Antoon
  • Pubblicato nel 2004
  • Edito da Ed. Feltrinelli
  • 103 pagine
  • Letto in Italiano
  • Finito di leggere il 21 novembre 2013

" Le parole che sopravvivono al loro autore vivono di vita propria.
Si spostano, prendono nuove forme, generano nuovi significati.
E mantengono sempre la loro intrinseca ambiguità".
Questa riflessione di Ibn Khaldun, vissuto nel ʼ300 e considerato uno dei massimi filosofi arabi, introduce il senso di questo breve racconto.
Siamo nellʼIraq degli anniʼ80, durante la sanguinosa guerra tra il paese di Saddam Hussein e lʼIran.
La repressione della dittatura è particolarmente dura ed investe tutti gli aspetti della società, anche la sfera più personale.
Lʼautore immagina che venga ritrovato il manoscritto di un giovane detenuto di nome Farat, il quale è stato incarcerato e torturato senza un vero motivo, se non quello di non conformarsi alle idee e alle regole del regime, perché crede che "la fantasia combatte la realtà".
In prigione gli vengono offerti dei fogli bianchi ed una matita.
"Il bianco della carta mi seduce, offrendomi la libertà di vagabondare nella mia solitudine.
Squarcerò il silenzio con i miei deliri.
Le parole si trasformeranno in essere mitologici, che si scaveranno un tunnel e mi porteranno fuori.
Oppure saranno dei prismi che appenderò tuttʼattorno a me per guardarci attraverso".
Il foglio bianco è un dono, che sembra dire: "prendimi e faʼ di me ciò che vuoi !" E il giovane comincia a narrare episodi della sua vita, ritrovandosi " qua(la)ggiù", dentro e fuori dal carcere nello stesso tempo.
Ed anche il lettore, come il giovane narratore, si lascia trascinare nella delicata freschezza della quotidianità: lʼaffettuoso rapporto di Farat con la nonna, unica parente rimastagli, le piccole astuzie per sfuggire ai penosi e ridicoli rituali del regime, il diffuso sarcasmo con cui si esprime la rabbia verso un potere indifferente alle esigenze del suo popolo, la ricerca di letture autentiche, il desiderio di poesia e di verità ed infine la scoperta dellʼamore e del corpo femminile.
In questo peregrinare tra i ricordi e le parole poco importa se ci si dimentica di apporre i segni diacritici, lasciando spazio allʼambiguità propria di una lingua come lʼarabo, ricca di radici semantiche e di possibili variazioni e combinazioni delle lettere dellʼalfabeto.
Ciò che interessa a Farat sono lʼingenua dolcezza e la lieve ironia che hanno contraddistinto la sua breve vita, prima del carcere.
Il " laggiù" permette di sopportare il " quaggiù", ma è come accovacciarsi " davanti al muro di questo vasto incubo".
" Generati dal bianco dei fogli, dei soli squarciano le tenebre di questa notte e richiamano unʼaltra galassia.
Ma sono soli prigionieri, anche loro intrappolati dietro a file di sbarre".
Quando in pieno vaneggiamento il giovane narratore racconta della sua liberazione, anche noi lettori ci crediamo, ma poi ci ricordiamo che siamo nel 1989.
" Questo è il mio ultimo foglio...
Sì voglio scrivere ancora".

Per apprezzare pienamente il racconto bisogna estraniarsi dalla realtà irachena e dal crudele destino di Farat.
Bisogna lasciarsi immergere nei vari e sparsi episodi della sua vita, nei tanti deliziosi frammenti del romanzo.
Farat si innamora: " quel giorno stavi sfogliando una rivista.
Eri sola, ferma come unʼisola di silenzio in mezzo al fragore degli applausi e degli slogan, incurante di quel circo abietto che ti circondava.
A lezione tentavo sempre di sedermi vicino a te e, mentre gli studenti cercavano di declinare i verbi francesi nei vari tempi, io cercavo di declinare al presente i dettagli del tuo corpo.
Li leggevo con la voracità di un bimbo che impara una nuova lingua".
Lontano dalla filosofia del linguaggio, in fuga dalle dittature sanguinarie e ottuse, rimane impressa lʼeterna storia della giovinezza, aperta al mondo, irriverente, irrequieta e ingenua.

Perché leggerlo ? Un delizioso racconto, se ci si dimentica del contesto.

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