In una sera di pioggia un piccolo imprenditore basco è ucciso da un comando dell'ETA, un'organizzazione terroristica che insanguinò la Spagna dal 1968 al 2011, provocando oltre 800 morti, di cui 240 civili (fonte Wikipedia). Txato, questo è il nome della vittima, si era rifiutato di pagare il pizzo e il suo assassinio fu preceduto da una serie d' insulti e da un crescente isolamento da parte del paesino, dove viveva da anni l'imprenditore e la sua famiglia. Joxe Mari, il figlio del migliore amico di Txato, è affiliato all'ETA e opera in clandestinità; in una delle sere precedenti all'attentato è stato mandato in ricognizione presso la casa della vittima, <<non appena aveva cominciato a camminare, mi aveva visto. La Browning impugnata nella tasca e il Txato, cosa fa, cosa accidenti fa, attraversa la strada e viene dritto verso di me. La scena non era prevista dal copione. "Ehi, Joxe Mari. Sei tornato? Sono contento". Quegli occhi, quelle orecchie enormi, quell'aria amichevole. L'amico di suo padre che gli comprava i gelati quando lui era bambino. (...) Non farlo. Non ucciderlo. Erano rimasti muti uno di fronte all'altro. (...) Sono un membro dell'ETA e sono venuto a giustiziarti. Ma non glielo aveva detto. Non gli era venuto. Là in alto la campana aveva suonato un no>>. Questa scena, descritta a pagina 445, poteva essere un possibile avvio del romanzo, dando unità, secondo me, all'esplorazione delle conseguenze, non sociali e politiche ma psicologiche ed esistenziali, di una guerra civile che ha lacerato un'intera comunità. E invece Aramburu narra le storie individuali in modo disordinato, con avanti e indietro, inseguendo le vicende dei singoli personaggi come queste fossero storie specifiche, banali e scontate, vitalizzate solo dal legame con quell'unico fatto terribile. L'uccisione di Txato distrugge i consolidati rapporti di amicizia, determina la vita di tutti, degli affetti così come delle condizioni materiali di esistenza, immobilizza in ruoli definiti dall'odio e dal dolore. Joxe Mari finirà all'ergastolo, condannato a essere un eroe della liberazione dei paesi Baschi. Sua madre, Miren, assume le parti della protettrice, orgogliosa e inflessibile, del figlio perseguitato<<fanatizzata per istinto materno>>. Il marito di Miren e il migliore amico di Txato si richiude in se stesso, vigliacco, nasconde il lutto per la morte di Txato e la disapprovazione per le scelte di Joxe Mari. Gli altri figli sono in fuga da quella terra maledetta, così come lo sono i figli di Txato. Sono tutti <<satelliti di un uomo assassinato. Lo volessero o no, le loro rispettive vite ruotavano da lunghi anni intorno a quel delitto, a quel fuoco incessante di, di cosa?, cazzo, ma di pena, di dolore, e questa storia deve finire e non so più come>>. A rompere l'immobilismo della sofferenza è Bittori, la vedova di Txato, con la sua decisione di tornare al paesino e di riaprire la vecchia casa:<< una strana atmosfera avvolgeva i soprammobili, le pareti, i mobili, un odore caratteristico che, senza essere stomachevole, era tutt'altro che accogliente. Ed era lo stesso odore che emanano i vestiti di mia madre quando la abbraccio>>. Siamo dopo il 2011, la guerra civile è finita e tutti vorrebbero dimenticare. Il parroco ferma Bittori per strada per invitarla a non tornare in paese, << a non riaprire le vecchie ferite>>. La risposta della donna è lapidaria: è qui <<per tirare fuori tutto il pus che c'é ancora dentro. Altrimenti, non si chiuderà mai>>. Caparbia, Bittori otterrà che Ioxi Mira le chieda perdono, perché solo così ci può essere una vera riconciliazione, e non invece un pavido oblio omertoso. La determinazione di Bittori smuoverà tutti gli altri protagonisti della storia, che usciranno dalla loro sofferenza per ritrovare di nuovo se stessi, metabolizzando finalmente il lutto e accettando il proprio destino.
Gli argomenti fondamentali del libro sono la lacerazione e la riconciliazione: la violenza frutto dell'odio e la volontà di ricostruire la fratellanza. L'autore evita la retorica e il moralismo, scava, invece, all'interno delle coscienze. I personaggi sono sempre in bilico tra immobilismo doloroso e possibilità di liberazione dal destino; per riuscirci hanno bisogno di una forza esterna, costituita da Bittori, che abbandona le vesti della vedova sconsolata per assumere quelle di un' eroina tragica, portatrice, suo malgrado, di un compito universale ed eterno: quello di portare il carnefice a riconoscere le proprie colpe, a dichiararle e in tal modo liberarsi dal rimorso.
Si è già accennato al disordine della narrazione. Con una tendenziale scansione di tre capitoli per volta l'autore approfondisce i diversi personaggi del romanzo, senza creare una gerarchia d'importanza, quasi che non ci sia un protagonista. Quest' approccio lascia al lettore la libertà di scegliere la figura chiave del racconto (per me Bittori), ma annebbia la focalizzazione, ostacola la ricomposizione delle storie, che restano inconcludenti. L'alternarsi della prima e della terza persona come voce narratrice intriga dapprima, creando un effetto di spiazzamento. E' una bravura stilistica che alla lunga confonde la narrazione: ogni frase è interessante ma il tutto diviene dispersivo. Infine il romanzo è molto lungo, prolisso e ripetitivo.
Perché leggerlo? Interessanti gli argomenti affrontati.