In "Patria" l'autore affronta con toni forti le conseguenze psicologiche ed esistenziali della guerra civile che ha insanguinato i Paesi Baschi dal 1968 al 2011 (si veda la recensione in questo sito). Con "Anni Lenti" Aramburu tratta gli stessi temi, ma con accenti placidi, quasi sognanti. D'altra parte <<quando mi soffermo a passare in rassegna i miei ricordi di quegli anni (quelli della Spagna di Franco), mi torna una vecchia sensazione di lentezza. (...) Mi tenta, almeno in alcuni tratti del romanzo, fare uno sforzo per trasmettere mediante uno stile studiatamente lento quella sensazione di marasma storico>>. Per dare questa impressione di una storia <<che si trascinava pigramente>>, l'autore immagina che un "informatore" gli fornisca gli elementi per costruire un romanzo, anche <<se bisognerà scostarsi dalla testimonianza dell'informatore, si farà. Prima la letteratura, poi, se rimane spazio, la verità>>. E quindi una persona ormai adulta racconta a Aramburu la sua vita da bambino presso alcuni parenti di San Sebastian. Lui, <<uno stronzo di un navarro>>, come lo accoglie il cugino Julen, si ritrova a vivere in una famiglia basca: una zia autoritaria e brusca, lo zio malinconico e assente, la cugina grassa e brutta che se la fa con tutti i ragazzi, e Julen, che vedendolo piangere lo consola prendendolo in giro: <<se fossi basco non piangeresti. Hai mai visto piangere il ferro? Però, visto che sei un navarro di pasta frolla, succede quello che succede>>. Forte, sbruffone, sicuro di sé, viziato dalla madre, Julien ricorda Joxe Mari di Patria e, infatti, la sua vicenda ha molti tratti simili: entra nell'ETA, è costretto a fuggire in Francia, ma, a differenza di Joxe, Julien non regge la solitudine e le privazioni della vita clandestina; tradisce l'organizzazione e ritorna a San Sebastian, gettando vergogna sulla famiglia. Tutto questo è descritto con gli occhi di un bambino, che non coglie fino in fondo i pericoli connessi agli avvenimenti e il loro impatto sulla famiglia degli zii. E' vero gli veniva un brivido di paura quando vedeva passare la Guardia Civil, ma <<quei baffi, se li ricorda? Quegli sguardi duri, i manganelli e i caschi. le armi che la mia immaginazione da adolescente faceva fatica a concepire fuori dai film di indiani e cowboy>>. Nella fantasia del bambino tutto si mescola creando come una commedia dell'arte in cui personaggi buffi o spaventosi si agitano nella stessa atmosfera surreale e comica. Si pensi alla cugina grassa, che rimasta incinta è costretta a sposare lo scemo del villaggio, anche lui obeso e malfatto. O la figura grottescamente solenne del parroco, sicuro nel suo istigare i giovani ad affiliarsi all'ETA, e tremebondo quando rischia di essere arrestato. Eppure, il racconto soffuso e divertente dell'informatore bambino non riesce a dare pace, a permettere una conciliazione, anche quarant'anni dopo. Il romanzo si conclude con un ricordo amaro dell'autore. In autobus incontra il padre di Julien ma si volta dall'altra parte. <<Mi hanno attaccato l'odio. (...) Mi piacerebbe chiedergli perdono, ma è morto>>.
Ci sono tanti modi per parlare delle tragedie di un Paese, delle lacerazioni di una comunità e dei dolori delle persone che sono stati segnati da quegli avvenimenti. In questo romanzo Aramburu lo fa con un approccio spericolato, sempre sull'esile confine tra il comico e il drammatico; ne deriva un senso di inadeguatezza della narrazione che cresce via via che ci si inoltra nel racconto e ci si aspetterebbe una sua evoluzione verso una maggiore profondità di esposizioni e giudizi. Forse, Aramburu ha sbagliato l'informatore, che poteva fare un bambino? Non poteva che difendere la sua infanzia dietro a una visione fantastica, quasi che tutto fosse quel gioco di ciclisti di plastica, unico giocattolo del bambino informatore, che <<avanzano a turno, di tanti passi quanti ne indicava il dado>>.
Aramburu mostra sempre una notevole creatività narrativa. Se in Patria era il cambio del narratore in corsa (dall'io al lei nella stessa frase), qui è invece l'affiancamento al racconto del bambino di una sorta di traccia dello scrittore su come deve sviluppare il romanzo : la trama, l'ambientazione, gli approfondimenti, le parole. Sono "appunti" che via via sovrastano la narrazione, perdendo il senso di una riflessione su se stesso e sul mestiere dello scrittore per divenire sempre più un altro racconto, che ammutolisce quello del bambino. All'inizio questo espediente letterario è intrigante, perché insolito, ma poi si rivela ripetitivo e rompe lo sviluppo lineare della storia.
Perché leggerlo? Piacevole ma alla fine il racconto svanisce.