Tra i migliori che ho letto!
ma non lo rileggerei

The namesake (il nomignolo)

scritto da Lahiri Jhumpa
  • Pubblicato nel 2003
  • Edito da HarperCollins E-Books
  • Letto in Italiano
  • Finito di leggere il 13 aprile 2019
"Trasfòrmati in parole: (...) se correndo intorno a un solo nome è sempre di te e di me che si tratta e sempre le stesse le armi potenti di lutto e afflizione che pure nei sogni a rovina inseguono la mia levigatezza" (Cosimo Ortesta da il progetto di un freddo perenne 1988). Nel leggere questo romanzo mi è venuto in mente questo verso di Ortesta: i nomi ci seguono nella nostra esistenza, parlano di noi stessi, del legame che abbiamo con gli altri e di tutti i sentimenti, anche dolorosi, che ci portiamo dietro; come dice Lahiri, "i nomi muoiono nel tempo, periscono con le persone".  Gogol è figlio di una coppia bengalese, che si è trasferita negli Stati Uniti; il nome gli è stato attribuito alla nascita in attesa del "vero" nome che sarebbe dovuto arrivare dall'India, ma non è mai pervenuto: un nomignolo, quindi, scelto dal padre per la sua passione degli scrittori russi. Gogol "odia persino segnare il suo nome in fondo ai suoi disegni nella lezione d'arte. Odia che sia ad un tempo assurdo e oscuro, che non abbia niente a che fare con chi è lui, cioè né indiano né americano ma soprattutto non russo". Chiamarsi Gogol è il segno della sua ambiguità, di una identità sospesa tra due mondi, due differenti culture, storie e tradizioni.  E Gogol cerca di uscire da questa indeterminatezza, di fuggire dal nome, perseguendo con testardaggine la separazione dai genitori e dalla grande, chiassosa e affollata comunità bengalese, con l'abbigliamento, la cucina, gli usi e la lingua, difese strenuamente proprio perché si vive lontano dal proprio paese. E' stanco di tornare a Calcutta per la visita ai parenti, viaggio tanto atteso dai propri genitori. E soprattutto non vuole più sentirsi chiamare Gogol. Va a studiare lontano da casa, si laurea in architettura, trova lavoro in un'altra città, cambia nome in Nikhil.  L'atteggiamento del protagonista non muta anche quando viene a sapere i veri motivi che hanno indotto il padre a dargli quel nomignolo. Una sera il treno che riporta Nikhil a casa ha un forte ritardo. Il padre lo attende alla stazione in uno stato di grande ansietà: gli rivela che l'ha chiamato Gogol perché da giovane fu uno dei pochi superstiti in un grave incidente ferroviario: lo ha protetto il libro del grande scrittore russo. "A questo che pensi quando pensi di me, gli chiede Gogol, Ti ricordo di quella notte ? Niente affatto, dice suo padre alla fine, con una mano sui fianchi del ragazzo, un gesto abituale che aveva imbarazzato Gogol fino a quel momento. Tu mi ricordi di tutto ciò che è seguito", ossia della famiglia, del lavoro e del benessere conquistato; e il nome attribuito al figlio racchiude tanti significati, non ultimo ciò che disse Dostoevskij: "noi tutti venimmo dal cappotto di Gogol". L'enigmatica frase non può essere ancora compresa dal giovane Nikhil, il quale riprende la fuga dalle proprie radici. Conosce Maxine, una classica ragazza della buona borghesia "liberal", con belle case, begli oggetti, solidi punti di riferimento. Ospite della dimora dove i genitori di Maxine, così colti e disponibili, trascorrono le vacanze, in riva ad uno splendido lago e tra boschi e verdi prati, Gogol "capisce che questo è un luogo che sarà sempre qui per lei. Rende facile immaginare il passato di Maxine, il suo futuro, disegnare nella mente il suo divenire anziana. (...) Attraverso le finestre vede che l'alba sta emergendo lentamente nel cielo, soltanto poche stelle sono ancora visibili, le forme degli alberi circostanti e le costruzioni diventano pian piano distinguibili. Un uccello comincia a cantare. E allora ricorda che i genitori non lo possono raggiungere: non gli ha dato il numero di telefono. (...) E qui accanto a Maxine, in questa accogliente natura selvaggia, si sente libero." La fuga si interrompe quando improvvisamente muore il padre. La corsa all'obitorio, il riconoscimento, la raccolta dei pochi oggetti che il padre aveva con sé, il ritorno a casa presso la madre, ormai sola, il funerale di rito indiano, con intorno tutta la comunità bengalese, riportano brutalmente Gogol indietro, al suo essere né indiano né americano, e nemmeno russo. Maxine lo invita ad una vacanza insieme (perché "ti potrebbe far bene (...) andare via da tutto questo"); Nikhil le risponde: "non voglio andar via". Ed ecco che è di nuovo Gogol, si lascia guidare da sua madre verso un matrimonio con una ragazza bengalese, in una cerimonia fastosa e affollata che poco tempo prima avrebbe sdegnosamente rifiutato. Non è così semplice ritrovare la propria identità. Non possiamo approfondire la storia della ragazza sposata da Gogol, un racconto dentro il racconto. Possiamo solo riportare alcuni tratti fondamentali: ha un nome impronunciabile in americano e quindi viene chiamata con un nomignolo, anch'essa è fuggita dalla famiglia, è andata a Parigi dove ha appreso una lingua terza (né americana né bengalese), è tornata negli Stati Uniti per insegnare letteratura francese all'Università, si circonda di fini intellettuali (così distanti dalla semplice cultura tecnica di Gogol), ha avuto molti uomini, tradisce Nikhil, torna a Parigi. Gogol è un romantico, e come tale ha una storia d'amore, intensa almeno per lui, crede realmente di avere trovato solide radici in una moderna famiglia anglo-bengalese. Il tradimento e la separazione lo riportano bruscamente ad uno stato di sospensione.  "Si chiede come hanno fatto i suoi genitori, lasciare indietro le loro rispettive famiglie, vederle così raramente, senza un luogo dove ritrovarsi, in uno stato perenne di attesa, di nostalgia. (...) Gogol sa che i suoi genitori hanno vissuto le loro vite in America a dispetto di ciò che gli mancava con una forza che teme di non possedere".

Cosa c'è in un nome, si chiede Shakespeare in Romeo e Giulietta: "ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo". Il romanzo non ci dice se ha ragione Giulietta. Nella vecchia casa che la madre sta abbandonando per trasferirsi a Calcutta, Gogol ritrova i racconti del grande scrittore russo: un libro che il padre gli aveva regalato quand'era adolescente e lui aveva abbandonato sullo scaffale, con un misto di indifferenza e fastidio. E trova una dedica:  "l'uomo che ti diede il suo nome, dall'uomo che ti diede il tuo nome". Ecco l'enigma di Dostoevskij: "il nome che aveva così detestato, era qui nascosto e preservato. (...) Coloro i quali gli avevano dato e conservato il nome di Gogol  erano lontani da lui, adesso. Uno morto, l'altra, vedova, in procinto di una differente tipo di partenza, per vivere piena di nostalgia, come suo padre, in un mondo separato. (...) Una volta o due alla settimana ascolterà il nome di Gogol, sui fili del telefono, o scritto sullo schermo. (...) Senza la gente nel mondo a chiamarlo Gogol, non importa quanto a lungo lui viva, Gogol Ganguli, una volta e per tutto, svanirà dalle labbra di chi l'ama, e così, cesserà di esistere".

E' un romanzo intenso e complesso: una scrittura fluida ed elegante, un'attenzione spasmodica al dettaglio. I luoghi, gli oggetti, il cibo, l'abbigliamento sono descritti minuziosamente, a differenza dei personaggi, non trattati in modo superficiale, ma volutamente sempre "in attesa" di qualcos'altro, o con la nostalgia per qualcos'altro. La scrittrice sembra vuol dire: tutto è vacuo tranne i luoghi, naturalisticamente mostrati e pur tuttavia ricchi di miti, di suggestioni, trasmettitori di valori e di mondi. Talvolta si perde il filo della trama, ma che importa ? Il fascino risiede nella scrittura e tocca al lettore ricomporre e interpretare il tutto.

Perché leggerlo ? Un capolavoro, affascinante e denso di significati e di evocazioni.


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